Recensione
Il banchiere anarchico – Recensione: anatomia del potere
Base conduce un’operazione spietata, dissezione chirurgica del potere e degli ideali. “Il banchiere anarchico” destabilizza e disorienta, ma è creazione profondamente conscia di essere libera.
C’è un dato spesso registrato, tra le pieghe della storia letteraria europea e non: il periodo storico, le menti all’interno delle temperie in questione, tendono a riflettere su sé stessi in maniera quasi autoreferenziale, provano a darsi forma e nome. Ed è altrettanto acclarato che gli stilemi poi si cristallizzino, prendano coscienza e fisionomia. Si parte da qui per “Il banchiere anarchico”, da un termine che pur in maniera secondaria è stato portatore di valenze, simboli, significati latenti: anatomia. Nel Seicento inglese è parola che salta fuori in maniera maniacale, diventa firma di una minorità che sente l’urgenza di capire, aprire la realtà e osservarla. Ritorna nell’Ottocento sotto influsso francese, arriva da noi tramite gli Scapigliati, che pur lo rivestono di carica sovversiva, poetica ma rabbiosa, di protesta.
Base sembra proprio abbracciare questo: lo scandagliare minuziosamente, la dissezione spietata. Perché? Perché deturpare l’integrità del bello, della superficie liscia, intaccare l’estetico? È l’urgenza a chiederlo, sono i problemi del contemporaneo a reclamare risposte. Si opera chirurgicamente per conoscere ogni piega lontana dall’occhio, registrare ogni nervo scoperto: si dirige un film per comprendere e far comprendere. Si deturpa la facciata, si profana il corpo perché il desiderio di conoscenza e verità è più forte di un qualsiasi altro atto scomodo e ripugnante.
Parte da questo presupposto “Il banchiere anarchico”, miscellaneo e ibrido al midollo, dalla contaminazione strutturale. Si passa dal teatro, al cinema, al coreutico, dal colore al bianco e nero, in un palco – la casa del banchiere (lo stesso Giulio Base) – in cui il tempo è sì scandito da orologi e tintinnii dal procedere ossessivo, ma quasi sembra circolare, di concezione greca, non lineare: tutto torna su se stesso, per poi conflagrare e ripetersi. È condizione immutabile, di sospensione – quella tanto ben descritta da Pessoa nel 1922, ora con una propria trasposizione cinematografica grazie al lavoro del regista -, i settantasei anni che distanziano il libro dai nostri giorni non ne intaccano la profonda e dolorosa attualità.
Il banchiere anarchico: la via crucis dell’idealista
È un gioco intellettuale, il cineteatro di Base, stimolante ma non del tutto elitario. Chagall muoveva pur da questi intenti: una pittura per la moltitudine, che parli di tutti e a tutti, che racconti senza nascondere o celare. Il regista adatta bene il lavoro pessoano, mantiene il mirino e il baricentro sulla parola, evitando di schiacciare al ribasso o strattonare il discorso verso cime autoreferienzali e fumose. Una parola che è copiosa, ridondante, che sommerge uno spettatore alla deriva, trascinato a largo dal flusso verbale; un turbine di lettere, di richiami e voci, di ecolalie e citazioni aperte che pur si incastrano in maniera non forzata. Bakunin, Marx, Hegel, Sartre: questi sono alcune delle ossa della narrazione, svelate apertamente da una bibliografia che curiosamente appare nei titoli di coda.
Tra i risvolti del discorso, pur giace sopito un dramma: quello del banchiere, figlio del popolo, divenuto tale per amor di anarchia. “L’accostamento fa sussultare e confonde, ma il potere è pur sempre anarchico, fa quello che vuole” (come viene spiegato da Pasolini). Nel tentativo di liberare sé stesso – atto dovuto e pagato a caro prezzo – il banchiere diventa voce solitaria e isolata, pensatore sulla torre d’avorio.
È una via crucis sanguinolenta e patita, quella che affronta l’uomo: Base si muove per stazioni, vive tutto lo spazio scenico, avvolto dal nero; si sposta e parla, si siede e rivela, in un climax affannoso. Si procede per sillogismi per l’intero film, il magnate e un caro amico (Paolo Fosso) – invitato per la festa di compleanno del banchiere – intessono un dialogo fitto, serrato, convulso sul concetto di libertà e di essere liberi, sull’anarchia, sul radicalismo. Questo il limite della pellicola: è forma d’arte, ma monolitica, fatica a riflettere la luce in maniera prismatica; non arriva e non offre spunti a chi trova il soggetto lontano dalle proprie corde. Eppure sembra lavoro quanto più urgente e necessario: è coraggioso nel suo sconfinare, nell’accettazione compiaciuta del suo essere opera libera.
Simone Stirpe
Trama
- Regia: Giulio Base
- Cast: Giulio Base, Paolo Fosso
- Genere: Drammatico, colore
- Durata: 82 minuti
- Produzione: Italia, 2018
- Distribuzione: Sun Film Group
- Data di uscita: 10 Ottobre 2018
“Il banchiere anarchico” è un’opera di Giulio Base, tratto dall’omonimo libro di Pessoa, datato 1922. Come nella prova letteraria, il film si regge su una lunga conversazione tra due amici, intorno al concetto di anarchia e libertà. Il pretesto narrativo è il cinquantesimo compleanno del banchiere (Giulio Base), uomo self made, originario del popolo, che ha condotto un’esistenza fondamentalmente schiva. Da qui si dirama una conversazione che ha tanto la struttura di un’intervista, di una dissezione meticolosa e serrata di cosa significa credere in un ideale. Tutto è regolato da flussi rigorosi di sillogismi, che guidano il narratore in labirinti logici vorticosi. Pochissime le azioni; governa la parola, tesa al massimo delle sue possibilità.
Il banchiere anarchico: dialoghi sulla libertà
Il banchiere sostiene di essere anarchico. L’amico (Paolo Fosso), di contro, sottolinea lo status dell’uomo – quello di conservatore detentore del potere. Seguono una serie di argomentazioni concitate, tese a dimostrare che la fede anarchica del banchiere è proprio la stessa di quella sbandierata dagli operai e dalle classi sociali più povere. Un ideale che negli anni è stato inquinato e corrotto, fino al punto di renderlo praticabile solo alla condizione di essere egoisti: l’anarchico può liberare solo sé stesso. Ogni azione collettiva è negata, schiantandosi contro la realtà.
Base ripercorre, tramite le parole di Pessoa, la formazione di un uomo complesso, sfuggente, fedele alle proprie idee. Che cos’è un anarchico? Cosa fa del banchiere un anarchico? Questo il quesito che risuona lungo tutta la pellicola. Un oppositore dell’ingiustizia del nascere socialmente diseguali? Un soggetto che ricerca, tramite ogni mezzo possibile, la realizzazione della Libertà – stato che non ammette altro all’infuori delle leggi di natura? La risposta è in continuo divenire; tramite la parola, elevata a fulcro dell’opera, i due giungeranno a una risposta.
Trailer