Recensione
Se la strada potesse parlare – Recensione: Harlem Mon Amour
La ricerca dei corpi, il ritrovarsi spontaneamente: come spiegare cosa permette a due individui di scegliersi? Il concetto di amore è termine ombrello, quanto più ostico e ingestibile, parola che porta in latenza un insieme esorbitante di sfumature ed esperienze. Il cinema si è caricato sulle spalle l’onere di frugare tra le pieghe del sentimento, provando a palesare l’ineffabile, sottrarre al tempo i nostri affetti più intimi. Eppure col tempo l’urgenza è rimasta, nonostante il procedere storico, il diramarsi capillare, l’elevamento a potenza: banalmente, si ci riempie la bocca di amore in quanto unica e reale esperienza di contatto con l’Altro, approdo a qualcosa che trascenda la semplice carne. In un singolo, puro momento, il vivente sente il vivente.
Barry Jenkins continua a elaborare la propria poetica amorosa in “Se la strada potesse parlare”, opera quanto più legata alla sorpresa del corpo, allo scoprirsi e scoprire. Ci sono Clementine “Tish” Rivers (una magnetica KiKi Layne) e Alonzo “Fonny” Hunt (Stephan James), una vita trascorsa spalla a spalla, dallo sguardo esploratore dell’infanzia agli umori e vischiosità dell’adolescenza. Arriva di colpo il riconoscersi spontaneamente, l’unificazione vera – scriveva Hegel nel “Frammento sull’amore”. Sotto i loro piedi muove la Harlem degli anni ’70, già umiliata da violenza e coercizioni; nel calderone che ribolle, sulla bomba che ticchetta, si mettono su progetti: una casa, un lavoro che permetta stabilità, la sospensione dell’esser giovani. A vegliare sulle vite altrui rimangono solo strade imponenti e impotenti, testimoni silenziosi del massacro e la paura, del miracolo e della tregua. C’è anche quella Beale Street a cui il titolo originale esplicitamente rimanda, il coacervo e il punto nevralgico della cultura black, culla del jazz, terra da cui l’esodo ebbe inizio.
Dal blu al blues. Abbandonata la fotografia oltremarina di “Moonlight”, Jenkins vira su colori più vividi, immersi in atmosfere impazzite di luce (la sovrapposizione in alcune scene con “Her” di Spike Jonze è folgorante). Quest’ultima filtra e penetra, abita gli spazi – ci dovrà pur essere un varco, una soluzione che permetta il realizzarsi di un amore troncato a metà. Eppure Fonny è in prigione, incastrato per un reato non commesso; sul giradischi muove stanco un blues.
Se la strada potesse parlare: la storia di una separazione una separazione
Giunge la notizia, inaspettata: Tish aspetta un bambino. Ha diciannove anni, niente college, se la cava come commessa. Eppure è determinata, pensa ancora alla casa da tirar su, gioca con l’immaginazione e i futuri prossimi. Jenkins intesse un’ode sottile alla famiglia, collante e struttura su cui poggiare: attorno alla nascita, al segreto della vita che si compie, si cessa di essere schegge impazzite. Si supera anche il dramma dello scisma, del vetro che separa due amanti: se con l’amore esiste ancora la separazione di identità, ma non di corpi, ogni nuova barriera disintegra l’armonia e l’equilibrio.
Il nodo tuttavia rimane, strozza ogni piano: Fonny non può essere tirato fuori di prigione, inchiodato ingiustamente da un poliziotto bianco. “Se la strada potesse parlare” incanala una rabbia di fondo ancora fresca, rovista in problematiche pulsanti. Il colpo inferto non è alla giugulare, piuttosto laterale, montante: la polemica, il filo politico si dipana sottilmente, non si esplode e si arriva a una certa pornografia del dolore. Forse ingenuamente, ci si solleva dallo storico e dalle incombenze; poco conta degli ostacoli e delle barriere: l’amore è restaurativo, riempie le lacune, pulisce le macchie. Dà e si dona, non ha riserve – lo ricordiamo tramite analessi, in una scena che prende per mano l’Emmanuelle Riva di “Hiroshima Mon Amour”. Le parole, biascicate: “Perché non te? Perché non te in questa città e in questa notte tanto simile alle altre, al punto di rendersi irriconoscibile?”
Simone Stirpe
Trama
- Titolo originale: If Beale Street Could Talk
- Regia: Barry Jenkins
- Cast: Dave Franco, Finn Wittrock, Ed Skrein, Regina King, Teyonah Parris, Colman Domingo, Aunjanue Ellis, Brian Tyree Henry, Stephan James, Faith Logan, Michael Beach
- Genere: Dramatico, colore
- Durata: 117 minuti
- Produzione: USA, 2018
- Distribuzione: Lucky Red
- Data di uscita: 24 gennaio 2019
“Se la strada potesse parlare” è un film drammatico del regista Barry Jenkins, che racconta un amore tra due giovani afroamericani, trasformata in un incubo quando lui viene accusato di stupro da una donna sudamericana e da un poliziotto bianco.
Se la strada potesse parlare: la Harlem degli anni ’70 prende vita
Barry Jenkins ritorna con “Se la strada potesse parlare”, terza prova sulla lunga durata del regista premio Oscar di “Moonlight”. Al centro della narrazione, una storia d’amore, inficiata da incombenze e violenze: ci sono Tish, commessa diciannovenne e Fonny, artigiano. Il loro piccolo idillio amoroso viene messo in ombra, gettato nel caos, da una falsa accusa di stupro; improvvisamente crollano progetti futuri e certezze. La ragazza si appoggia alla propria famiglia, con la quale prova a tirar fuori di carcere il ragazzo – fondamentale la figura di un giovane avvocato, bianco, che cercherà di battersi per la causa.
Tra le difficoltà di una Harlem vessata da violenze e soprusi – soprattutto tra etnie differenti -, la narrazione di Jenkins va ad imperniarsi su un rapporto viscerale, tenero, tra due individui cresciuti assieme per anni, improvvisamente riconosciutisi. Spalla a spalla, dall’infanzia all’adolescenza, il loro rapporto è divenuto quasi organico, le loro vite intrecciate. Mentre Beale Street – la strada dove nacque il jazz e la cultura black – è muta, lontana dagli avvenimenti di Harlem, si consuma una separazione fisica: quella tra Tish, scopertasi incinta, e Fonny, dall’altra parte del vetro. Loro compito sarà quello di sopravvivere, cercare soluzioni, mantenersi saldi prima che la tempesta imperversi.