Recensione
Matthias & Maxime: l’emergenza di un cinema sanificante
Dopo l’insuccesso cocente de “La mia vita con John F. Donovan” (2018), il prolifico attore e regista canadese appena trentenne Xavier Dolan recupera lo spazio linguistico a lui congeniale del francese québécois ambientando nella Montréal di “J’ai tué ma mère” (2009) e “Les amours imaginaires” (2010) il suo ultimo, straordinario lavoro: “Matthias & Maxime” (2019), una storia di scoperte, ri-scoperte, accettazioni e soprattutto crescita personale.
Candidato a vari riconoscimenti, tra cui la Palma d’oro al Festival di Cannes, andata poi al (forse troppo?) blasonato “Parasite” di Bong Joon-ho, quest’ultimo Dolan ha diviso la critica: dai detrattori de “Le Figaro” agli incensatori de “Le Monde”, dalla stroncatura del “London Evening Standard” agli elogi di Bradshaw dalle colonne di “The Guardian”, il mondo del cinema sembra interrogarsi e non riuscire a comunicare al suo interno. Proprio come la società ammalata che il film vuole ritrarre.
L’emergenza Dolan
Pop, raffinato, preciso nei suoi movimenti di camera, nitido nella fotografia, lento nei momenti di tensione e vertiginoso, quasi ubriaco in quelli più narrativi – come una personificazione indipendente di Netflix, eppure così autonomo, così urgente, da trascendere con un solo colpo la Nouvelle Vague e gli anni Ottanta: Xavier Dolan è, davvero, una delle più notevoli emergenze intellettuali degli ultimi anni. La sua presenza è capillare nel panorama cinematografico contemporaneo: otto lungometraggi in dieci anni, di cui sei presentati a Cannes e alcuni già assurti al rango di grandi classici (si pensi a “Mommy”, del 2014, o al precedente “Laurence Anyways e il desiderio di una donna…”, del 2012), un cameo memorabilissimo in una colonna portante del revival ‘80s degli ultimi anni quale “It: Capitolo 2” (2019), per non parlare di altri contributi come la realizzazione del video di “Hello” (2015) della cantante Adele. Eppure, il suo contributo resta marginalizzato, isolabile, come una voce forte che non sembra riuscire a fare breccia alle vette dell’industria tanto quanto nell’immaginario del pubblico. Cacciato da Hollywood, il giovane regista è tornato nel suo nord e ha ripreso la sua opera, sempre aperta, di demolizione delle categorie malsane che affliggono la società presentata, nei suoi film, come una frenesia familiare di silenzi, irresponsabilità, dolori, traumi e tanta, tanta violenza. Strattonato tra i poli del raccoglimento à la “Lezioni di Piano” (J. Campion, 1993) e della buddy dramedy tipo “Il grande freddo” (L. Kasdan, 1983), Dolan decostruisce con l’agio di chi ha qualcosa di evidente da dire l’idea stessa di identità (di genere, familiare, personale), in un periodo della storia in cui il dibattito su questi temi è particolarmente intenso.
Un ritorno
Con “Matthias & Maxime”, un titolo già di per sé molto “anni Sessanta” per una locandina parecchio godardiana, Dolan torna a Montréal. E, così facendo, torna a una dimensione amicale e familiare che conosce bene, e la scandaglia fino all’ultimo. Lo spazio in cui i personaggi agiscono è rimpicciolito al confronto con la speranza di una rinascita in Australia per il giovane Maxime; ma ogni anfratto acquisisce un’insospettata profondità davanti al dramma di chi non sa parlare con la propria famiglia, con i propri amici, e soprattutto con se stesso. I due personaggi, maschi, vengono posti dinanzi al dubbio sulla loro identità da un bacio che sono costretti a scambiarsi per scommessa, e da questo momento inizia per loro un lento, faticoso cammino di accettazione. Maxime, che proviene da un contesto sociale “problematico” e cerca con fatica di affrancarsi dalla pesante cappa materna e dalle difficoltà economiche oggettive, è l’estremo che, paradossalmente, spalanca lo sguardo sulla possibilità di riconquistare se stessi agli schemi, come il giovane Steve in “Mommy”; al contrario, Matthias, ragazzo dal retroscena familiare apparentemente più fortunato, sembra assolutamente incapace di scrollarsi di dosso l’opinione generale.
L’idea, centrale e (parrebbe) banale, dell’opera di Dolan, quella di un umanesimo senza ulteriori specificazioni, cozza con l’educazione conservatrice (a dispetto delle apparenze) di Matthias: l’amore per Maxime incrina la sua percezione di se medesimo, e infine lo distrugge… o forse no?
Tante formazioni
L’ultima opera di Dolan è un dolce romanzo di formazione, dove il messaggio esistenziale non fatica a trasparire: il caos della vita esterna, tutta quella larga parte di tempo che costituisce il seme dell’angoscia nel mondo di cui facciamo esperienza, può essere isolato e “riordinato” da un solo, irriflesso atto di amore, di trasporto. La scena dell’abbandono dei due amanti è forte, ma dolce, e risulta capace di evocare con semplicità e (forse) candore quello che il pur bellissimo “Chiamami col tuo nome” (L. Guadagnino, 2017) non riesce a trasmettere senza scivolare in un manierato voyeurismo. Ma a margine della formazione dei due personaggi centrali, lo spettatore assiste a quella di tutta la loro banda di amici, e, per quel tramite, a quella dei nostri tempi in senso lato. Per ogni critico-Matthias che dalle colonne de “Le Figaro” tuona contro la presunta débacle del giovane regista c’è un critico-Maxime che abbraccia questa nuova ventata di cinema indipendente. Presumo che sia chiara la preferenza di chi scrive, e, con lei, il suo invito alla visione di questa perla dell’arte contemporanea.
Lorenzo Maselli
Trama
- Regia: Xavier Dolan
- Cast: Xavier Dolan, Harris Dickinson, Anne Dorval, Marilyn Castonguay, Catherine Brunet, Pier-Luc Funk, Adib Alkhalidey, Christopher Tyson, Gabriel D’Almeida Freitas
- Genere: Drammatico, colore
- Durata: 119 minuti
- Produzione: Canada, 2019
- Distribuzione: Lucky Red
- Data di uscita: 27 Giugno su Miocinema.it e su Sky Primafila Premiere
Con il lungometraggio drammatico “Matthias & Maxime” il regista Xavier Dolan torna a concentrarsi ancora una volta su temi a lui cari, come la sessualità e la famiglia.
Matthias & Maxime: tra doveri familiari e sogni nel cassetto
Matthias (Gabriel D’Almeida Freitas) e Maxime (Xavier Dolan) sono amici di lunga data, provengono da contesti familiari molto diversi e hanno una relazione fatta di allontanamenti e ravvicinamenti.
Una sera, a una festa, i due sono spinti a baciarsi per aiutare, come attori, la giovane Erika (Camille Felton) nella realizzazione del suo film. Questo evento, apparentemente insignificante, determinerà nei due, e soprattutto nel meno disinibito Matthias, un periodo di forte crisi personale. I giovani hanno così le ore contate, prima della partenza di Maxime per l’Australia in cerca di lavoro, per capire come affrontare i nuovi dubbi che li affliggono.
Cast e produzione
Xavier Dolan è un giovanissimo cineasta canadese, considerato un prodigio sin dal suo lungometraggio d’esordio “J’ai Tué ma Mère” (2009), toccante storia del rapporto tra un figlio omosessuale e sua madre.
Sin da subito si nota come Dolan abbia a cuore tematiche LGBT, che esplora successivamente in film come “Laurence Anyways” (2012), storia di una donna transgender e del suo matrimonio, o “Tom à la ferme” (2013), la tormentata vicenda di un uomo alle prese con l’omofobia della famiglia da cui proveniva il suo defunto compagno.
Dolan è inoltre molto attento alle complesse dinamiche familiari dei suoi personaggi, come dimostra “È solo la fine del mondo” (2016), che vede il protagonista cercare di integrarsi con una famiglia che non ha mai davvero conosciuto a fondo.