Recensione
Il bianco pastore di renne: gli arcani oppressi
70 anni prima che Ari Aster, col suo straordinario “Midsommar – Il villaggio dei dannati” (2019), ci facesse apprezzare la più limpida luce diurna come perfetto paesaggio dell’orrore, la Lapponia di Erik Blomberg proponeva un classico senza tempo, dalla narrazione delirante, che eccede tutti gli obblighi del cinema occidentale: “Il bianco pastore di renne” (1952), traduzione errata di “Valkoinen peura”, “la renna bianca”.
Il risultato: un capolavoro che anticipa molti temi del folk horror, sottogenere oggi in gran voga e apprezzabile in visione domestica nella versione restaurata in 4K dall’Istituto Nazionale Audiovisivo di Finlandia e in Blu-ray da Eureka Entertainments.
Il 1952: Blomberg nell’anno orrido dell’horror
Per il cinema horror americano, il 1952 è un anno di forte decadenza. Il catalogo di quell’anno è soprattutto una riproposizione di vecchie stelle del cinema gotico, da uno stanco Karloff (“Il mistero del castello nero”, Nathan Juran) a uno stanchissimo Lugosi (“Bela Lugosi & il Gorillla di Brooklyn”, William Beaudine). Tanto più sorprendente, dunque, il début di Blomberg proprio in quell’anno.
Noto soprattutto come direttore della fotografia per aver lavorato con Teuvo Tulio e Nyrki Tapiovaara, alcuni dei registi più in vista del cinema finlandese degli anni Trenta, Blomberg esordisce alla regia proprio nel 1952 con “Il bianco pastore di renne”, per una sceneggiatura scritta da sua moglie, Mirjami Kuosmanen, attrice protagonista del film. Questa breve opera di appena più di un’ora gli varrà, nel 1953, il premio come Miglior Film di Fantasia nella sezione del Festival di Cannes diretta da Jean Cocteau, e nel 1956 un Golden Globe come miglior film straniero.
“Il bacio della pantera” in bianco
Uno degli elementi che più colpiscono lo spettatore è il colore dominante della scena. Le bianchissime distese della Lapponia sono infatti teatro, sempre luminoso, di atrocità inaudite, che raccolgono gli spunti centrali del folklore sui vampiri e sui lupi mannari senza ammantarle nel buio delle notti gotiche. La fotografia è limpida, splendida nei suoi contrasti talvolta invertiti, nelle sue inquadrature fatte di palchi e ossa disseminati nella neve, di mandrie di renne che fluiscono come sangue su una tela e di falò che sparpagliano galassie di scintille nel cielo della notte.
Il personaggio femminile di Pirita, con costanti primi piani sul volto della Kuosmanen che anticipano di una decina d’anni le magnetiche inquadrature baviane del viso della Steele, risulta sempre esposto nelle sue manifestazioni angeliche e ferine. In questo senso, il trattamento è analogo a quello che Jacques Tourneur aveva riservato, nel 1942, a Simone Simon ne “Il bacio della pantera”, capolavoro (e capostipite) di quel modo antispettacolare di fare horror che ne consacrò il produttore Val Lewton a paladino del fuori scena. Ma, laddove Tourneur pone l’ombra, simbolo dell’ambiguità tra realtà e pazzia, Blomberg riempie l’immagine col candore abbacinante della mitologia. Non c’è spazio per il dubbio: la magia esiste, ed è la fibra della nostra esistenza.
Arcani e oppressi: una storia femminista e anticoloniale?
Pirita è una donna in preda a quelli che una società patriarcale considera i suoi istinti più bassi, e si affida a una religione precristiana per soddisfare i suoi appetiti sessuali. Ma è anche una lappone (o sámi) dai capelli neri in un gruppo di chiarissimi finni.
Questo film è stato a volte letto come un manifesto inconsapevolmente maschilista, dove a una giovane che non sa apprezzare il suo posto nel mondo succedono cose indubbiamente atroci. Ma questa lettura non considera il vero tenore dell’opera, a metà tra l’elegiaco e il tragico, proprio come le meravigliose musiche della colonna sonora di Einar Englund.
Pirita, infatti, è in primo luogo una donna vessata, consapevole dei propri bisogni ma costretta a un ruolo che non le basta, proprio come il suo nomade popolo, soggetto alle violenze costanti dei vicini meridionali, germani, finni o slavi che siano.
La religione cristiana, imposta con la forza, è rigettata da Pirita nel segno di una spiritualità più arcana, quella della roccia (seita) e del suo dio, cui la giovane può attingere preferenzialmente in virtù del suo statuto liminare tra l’umano e lo stregonesco.
Come la maga lappone che infilza lo sciamano Väinämöinen, Pirita si scaglia contro la figura maschile del semidio finnico, e la sua inevitabile sconfitta si configura come la tragedia atemporale della sopraffazione dell’uomo sulla donna, del dominatore sul dominato, del supposto bianco su ciò che taccia di essere nero. Lo sciamano del villaggio resta ucciso dagli spiriti ridesti da quella strana ouija animatasi al tatto di Pirita, e la croce sembra avanzare sempre più inesorabile.
Non resta allora nessuna speranza per gli arcani oppressi? Forse sì, se non nel corpo morto della loro eroina, almeno nelle silenziose fila di renne che continuano a riempire di vita le valli innevate, in silente resistenza contro il destino.
Lorenzo Maselli
Trama
- Titolo originale: Valkoinen peura
- Regia: Erik Blomberg
- Cast: Mirjami Kuosmanen, Kalervo Nissilä, Åke Lindman, Jouni Tapiola, Arvo Lehesmaa, Heimo Lepistö, Inke Tarkas
- Genere: Drammatico, b/n
- Durata 73 minuti
- Produzione: Finlandia, 1952
“Il bianco pastore di renne” è un film di Erik Blomberg del 1952.
Una renna mannara
Pirita (Mirjami Kuosmanen) è una giovane lappone in un villaggio di persone dai tratti perlopiù finnici. In una gara di velocità su slitta, Pirita sconfigge tutti gli uomini del villaggio, tranne il pastore di renne Aslak (Kalervo Nissilä), che diverrà suo marito secondo il rito cristiano.
Quello che era iniziato come un matrimonio pieno di gioia e di speranza si trasforma presto in una situazione di grande solitudine per Pirita, abbandonata da Aslak quando questi deve viaggiare alla ricerca di renne nelle desolate valli della Finlandia settentrionale.
La giovane, allora, su consiglio dello sciamano Tsalkku-Nilla (Arvo Lehesmaa), offre un cucciolo di renna bianca al Dio della Pietra, affinché questi la renda irresistibile a tutti i pastori. L’incantesimo si avvera, ma non come auspicato: Pirita infatti diventa una creatura di confine tra la vampira e la “renna mannara”, destinata a attrarre gli uomini per il suo manto e a ucciderli nella Valle del Demonio. Capitanati proprio dal suo ignaro marito, tutti i pastori del villaggio iniziano allora a braccarla.