Recensione
Pink Floyd – The Wall: tre megalomani e un mammuth
“Tre megalomani in una stanza, è una sorpresa che siamo riusciti a combinare qualcosa”. Così si è espresso nel 1999 Alan Parker, il compianto maestro del nuovo cinema britannico, a proposito della sua terza prova alla regia di un musical – il ciclopico adattamento del successo dei Pink Floyd del 1979, “The Wall”.
Il film che risultò dai suoi travagliatissimi sforzi, “Pink Floyd – The Wall” (1982), è a sua volta una creatura gargantuesca ed eccentrica, a metà via tra la storia del cinema e quella della musica, un’entità tricefala emersa non dal confronto, ma dallo scontro costante con le personalità artistiche fortissime di Roger Waters (leader del gruppo) e Gerald Scarfe (il disegnatore e illustratore che si era occupato della resa animata dell’album).
Il prodotto finale (the final cut?): un film che è anche un lunghissimo videoclip (e forse pure un rockumentary capace, a sua volta, di fare la storia del rock), ai tempi dei primi vagiti di MTV, di cui si capisce a stento la trama e ancor più difficoltosamente il senso profondo, ma che, a dispetto dell’insoddisfazione generale di chi lo ha diretto e prodotto, ha regalato a generazioni di fan il ritratto più baconiano di quell’angoscia generazionale che oggi, a distanza di quasi quarant’anni, suona se possibile ancora più attuale.
Una produzione faticosa
La produzione del film è stata descritta come un’esperienza snervante da parte di tutti i coinvolti. Parker, parrebbe, decise di gettarsi nel fumo pur di gestire lo stress generatogli dal costante conflitto con Waters e Scarfe; lo stesso Waters si è espresso negativamente in varie occasioni rispetto sia al processo produttivo che allo scambio artistico col regista, parlando di profonde divergenze stilistiche e filosofiche. Eppure, una certa attenzione reciproca tra quelle due grandi emergenze intellettuali degli anni Settanta si era già stabilita precedentemente al concepimento del musical.
Alan Parker si professava grandissimo ammiratore dei Pink Floyd dai tempi di “A Saucerful of Secrets” (1968, quando la band non aveva ancora raggiunto la fama mainstream), e così anche il chitarrista David Gilmour aveva parlato del classico “Fuga di mezzanotte” (che aveva valso a Parker sei nomination agli Oscar nel 1978) paragonandolo a “The Dark Side of the Moon”.
Parker, che dapprincipio aveva auspicato di potersi occupare della sola produzione del progetto, fu finalmente persuaso a prendere le redini della regia allorché il concept dei due originali co-registi, il cameraman del gruppo Michael Seresin e lo stesso Gerald Scarfe, cominciò a rivelarsi sempre meno pratico ed efficace.
Così, il piano di girare un live dei concerti inframezzato dalle ormai famosissime animazioni (i martelli nazisti, i fiori copulanti, il muro demolito, e così via), lasciò spazio all’idea più ambiziosa di un vero e proprio film, dove l’istanza semi-autobiografica di Waters (innestata su spunti legati alla travagliatissima vicenda di Syd Barrett) venne demandata alle capacità attoriali di Bob Geldof, il frontman dei The Boomtown Rats (gruppo tra il post-punk e il new wave, molto in voga nel Regno Unito intorno al 1975). Anche con quest’ultima aggiunta, la cui esibizione fu comunque sempre elogiata tanto dalla critica quanto dalla produzione e dal pubblico, non si stabilirono rapporti sereni: l’attore-cantante dovette ri-registrare i brani dell’album, contro l’avviso di Waters, e finì anche per ferirsi una mano nel corso delle riprese.
Un mammuth: inelegante ma efficace?
“Pink Floyd – The Wall” è una creatura in parte postuma, in parte prematura. Postuma, perché come i film della Hollywood dei grandi trust sembra quasi decapitato, di certo molto lontano dall’idea à la Hitchcock/Truffaut dell’opera d’arte romantica, composta da una mente per rispondere a un’istanza espressiva. Tutte e tre le personalità coinvolte se ne sono distanziate negli anni, parlandone come di un prodotto insoddisfacente rispetto alle proprie individuali aspettative stilistiche. Ma è anche un prodotto prematuro, perché quella stessa foga distruttiva, quel bisogno di sovvertire le gerarchie attraverso un immaginario nero e talora ctonio, sembrano echeggiare nel tempo, parlando alla sensibilità degli spettatori di oggi con ancor più evidenza al passare degli anni.
Un vino deforme, pieno di note contrastanti, che contro ogni aspettativa ubriaca senza far rigettare, e invecchia meravigliosamente nel brutale barile dei nostri tempi. Oppure, per usare una metafora comune, un mammuth: inelegante, forse, incomprensibile di certo, ma straordinariamente potente.
Lorenzo Maselli
Trama
- Regia: Alan Parker
- Cast: Bob Geldof, Christine Hargreaves, James Laurenson, Eleanor David, Kevin McKeon, Bob Hoskins, David Bingham, Jenny Wright, Alex McAvoy, Ellis Dale, James Hazeldine, Ray Mort, Margery Mason, Robert Bridges, Michael Ensign Musicale
- Genere: drammatico, musicale
- Durata: 99 minuti
- Distribuzione: Gran Bretagna, 1982
“Pink Floyd – The Wall” è un film diretto da Alan Parker, presentato fuori concorso al 35º Festival di Cannes.
: la trama
Pink (Bob Geldof) è una rockstar in piena crisi d’identità a seguito della morte di suo padre. Sprofondato nel consumo di droghe e nella depressione, sembra incapace di scuotersi e dare nuova linfa al suo lavoro. La moglie lo tradisce, e i suoi produttori tentano il possibile per tirarlo fuori dal muro metaforico nel quale si è chiuso.
I suoi ricordi e i suoi vaneggiamenti sono rievocati attraverso le canzoni dell’album “The Wall” (1979), che descrive allegoricamente l’infanzia, i turbamenti, i fallimenti e le grandiose speranze di tutta una generazione allo sbaraglio.