Recensione
Mother: la trappola di un amore egocentrico
“Mother” è un film che obbliga a fermarsi. E riflettere, a partire dal titolo statuario, che si impone nella mente di ognuno di noi con il suo denso significato. Il titolo è già stato largamente usato da diversi registi, tanto che il pubblico rischia di confondersi. Eppure, Tatsushi Ōmori ha eluso la possibilità di far cadere la sua opera nel dimenticatoio, all’ombra di omonimi film molto conosciuti, regalandoci un drammatico capolavoro.
Cos’è una madre?
Ognuno di noi ha, ha avuto oppure cerca, nella vita, una figura deposta a questo ruolo carico di aspettative e responsabilità. E, d’altra parte, molte donne sperano di diventare madri. C’è chi ne è terrorizzata e chi lo diventa un po’ per caso, colta dall’ingenuità della giovinezza. Chi aspetta il momento giusto e chi ne fa una ragione di vita. In ogni caso, come si suol dire “la mamma è sempre la mamma”, e un figlio la accetta così com’è, non gli è concesso desiderare una mamma diversa, pena un sentimento di colpa insormontabile.
Ma che succede se ci troviamo difronte a una situazione in cui la persona che dovrebbe proteggerti è la stessa che ti espone ad una vita fatta di stenti, che ti ruba il tempo dei giochi spensierati, che ti nega la possibilità di emergere nell’unicità della tua identità?
In “Mother” possiamo chiaramente vedere come la lingua dell’amore si confonde con un’arroganza egocentrica che intrappola e permea ogni pensiero, gesto e sguardo.
Una storia in cui il prezzo da pagare in cambio di un amore tirannico è sottostare a continui ricatti e sentire di dover restare in equilibrio su una frenetica e sconquassata giostra che è sempre sul punto di scaraventarti atterra: metafora dell’umore sregolato della madre dei protagonisti.
La pellicola presenta una madre prepotente, dispotica, asfissiante ed ambivalente che utilizza il proprio figlio per i suoi capricci, per i suoi dannati vizi; una madre che per specchiarsi utilizza gli occhi di suo figlio, anch’esso nato da uno sfizio, un figlio, il primogenito, condannato ad un’inversione di ruoli senza fine. Si tratta di un ragazzo a cui è stato sottilmente imposto di soddisfare ogni pretesa della madre, deputato a prendersene cura e poi a farsi carico anche della sorellina.
Durante la visione ci si rende conto di essere di fronte a un tragico paradosso, dove ripetuti picchi di euforia alternati a momenti di profondo sconforto contribuiscono alla creazione di un clima parossistico.
Il rischio di un paradosso ridondante
Il regista ha corso il rischio di proporre una trama dai caratteri ridondanti: personaggi troppo prevedibili e con poche sfumature nella personalità. Ma ciò che sarebbe potuto sfociare in una rappresentazione noiosa è invece una storia che narra chiaramente il “dramma della ripetizione”, condizione che colonizza la vita di chi è affetto da certi disturbi mentali. Queste persone si ritrovano infatti, inconsapevolmente, invischiate in una spirale di disagio che si autoalimenta e che, talvolta inesorabilmente, li esclude dalla possibilità di scorgere un orizzonte diverso nella visuale della propria esistenza.
Il pubblico è messo di fronte a uno scenario sociale, relazionale e affettivo difficile da tollerare, tanto da dover rimediare con l’illusione che “tanto è solo un film” per poterlo sopportare. E invece non si tratta solo di un film, ma della rappresentazione di una possibile degradata realtà familiare.
“Mother” fa sentire lo spettatore catapultato in un vortice che si ripete, si ripete, e ancora si ripete, sempre più tragicamente. Il pubblico potrà sentire dentro di sé un’emozione che sale. E assale. Ingombra, sconvolge. Probabilmente, si tratterà di una quota più o meno pura di rabbia direttamente proporzionale al disagio che intasa le vite dei protagonisti.
Giulia Cirenei
Trama
- Titolo originale: Mother
- Regia: Tatsushi Ōmori
- Cast: Masami Nagasawa, Sadao Abe, Halo Asada, Sho Gunji, Kaho
- Genere: Drammatico, colore
- Durata: 126 minuti
- Produzione: Giappone, 2020
- Distribuzione: Netflix
“Mother” racconta la storia di una dipendenza tossica che coinvolge una madre e i suoi due figli, soprattutto il primogenito, Shuhei. I violenti sbalzi d’umore, i capricci e i vizi di Akiko intrappolano e condizionano le vite dei suoi figli. Un dramma familiare che colpisce e fa riflettere su tema che inevitabilmente attraversa le vite di ognuno di noi : la dipendenza nelle relazioni. Non sempre la dipendenza è tossica, anzi una giusta dose è necessaria alla costruzione dei legami. In “Mother” Tatsushi Ōmori ci mostra una versione esasperata, ma non per questo del tutto irrealistica, di un legame tossico tra madre e figlio.