Recensione
Hive: la condizione della donna nel dopoguerra dei Balcani
“Hive” è un film doloroso, che immerge lo spettatore nelle ferite non ancora rimarginate della fratricida guerra nei Balcani. Il film porta sullo schermo la realtà di un piccolo centro rurale del Kosovo, che vanta un triste primato di morti e dispersi durante i combattimenti. A sette anni dalla fine dei conflitti molte donne sono rimaste vedove, ma non hanno potuto seppellire i corpi dei loro cari. In un centro rurale chiuso come questo, le donne stavano a casa a badare alla famiglia, e anche prendere la patente e guidare una macchina appare disonorevole. Ma per chi è rimasta sola, ricostruire una vita e assicurarsi una sicurezza economica viene prima delle maldicenze. O almeno questo è ciò che pensa Fahrije, che si rende conto che il miele che producono le arnie che curava il marito prima delle vicende belliche, ora sua competenza, non pagano le spese.
Fahrije cercherà di lottare per ricostruire se stessa, tra il dolore della perdita, le maldicenze, e il desiderio di coinvolgere anche le altre donne del paese in un’attività imprenditoriale tutta al femminile.
Emancipazione e rispetto per se stesse
“Hive” porta sullo schermo una storia vera, di sofferenza e emancipazione, che ricorda a tutte che ‘freedom is not free’, come disse il noto cestista turco Kanter. Vivere permettendo agli altri di decidere per noi stesse non è libertà, la nostra protagonista insegna a tutte che la libertà ha un prezzo, che lei paga quando decide di mettersi contro quelle tradizioni arcane che la condannerebbero a vivere di stenti. E anche contro la famiglia, che legge nei suoi gesti, erroneamente, la volontà di dimenticare il marito.
Certo sembra difficile pensare che esistessero a pochi passi da noi, relativamente pochi anni fa, realtà in cui per le donne era sconveniente fumare, guidare, avere un lavoro. Eppure è così, per questo non bisogna mai abbassare la guardia, non ci sarà mai vera emancipazione femminile se non è condivisa in ogni dove.
Un film costruito con sapienza
Blerta Basholli confeziona un film intimo e sofferto, riaccendendo i riflettori su un conflitto troppo frettolosamente dimenticato, che ha lasciato ferite ancora aperte che a fatica si tenta di ricucire. Il dolore della ricerca dei resti dei propri familiari, o di un indumento, i test del DNA, sempre con la speranza di non trovare niente che ci possa ricollegare a loro, nell’illusione di un ritorno che non avverrà mai. Se non hai una lapide su cui andare a piangere è difficile anche andare avanti, perché c’è sempre qualcosa che ti tira indietro, alla ricerca di un passato che è stato devastato dal conflitto e non tornerà più. Bravissima Yllka Gashi nell’interpretare questa donna sofferente e determinata.
La regista, qui alla sua opera prima, confeziona un racconto agrodolce, tenero, intimo ed emozionante, come solo la vita vera può essere. Un esempio fulgido di come la settima arte possa veicolare la storia meglio di tanti libri.
Maria Grazia Bosu