Recensione
Telling My Son’s Land: un documentario di Ilaria Jovine e Roberto Mariotti sulla reporter di guerra e madre Nancy Porsia
Nancy Porsia è stata probabilmente l’unica testimone della Libia post Gheddafi. Il 4 settembre 2011 era lì e documentava il clima di festa e di speranza di un popolo piegato dalla guerra. É tornata sul posto nel 2013 e ci è restata per viverci. La Libia è diventata la sua casa e ha trovato anche l’amore nel suo fixer di guerra che la guida da anni sul territorio. Tutto è finito nel 2017, quando lei è stata costretta a scappare di corsa perché è diventata un target a seguito della sua inchiesta su Al Bija, capo della mafia del traffico di essere umani. Ora, quarantenne, abita a Matera in Italia e ha avuto un bimbo dal suo compagno. Non può andare in Libia, perché nella lista delle persone indesiderate eppure spera di poterlo fare per far conoscere a suo figlio i nonni paterni.
Con “Telling My Son’s Land” Roberto Mariotti, Ilaria Jovine delineano un personaggio forte e non scontato. Siamo abituati a reporter di guerra di sesso maschile, Tiziano Terzani in primis, ma mai il cinema ha raccontato la maternità vista dal punto di vista di una professione che rischia il pericolo continuamente.
Il ritratto di una donna tanto dolce quanto caparbia
Si può essere madre e documentare la guerra dalle retrovie? Jovine e Mariotti partono nel racconto con i reportage di Nancy che conosce il popolo libico come pochi altri. In quel paese ci ha vissuto e ne comprende tutti i segreti. Da donna, per arrivare alla macrostoria è partita dalle microstorie, quelle dei bambini siriani che hanno attraversato il Mediterraneo per trovare un porto sicuro ma sono stati scacciati brutalmente dalla Fortezza Europa. Loro sono diventati carne da macello per trafficanti e/o passatori figure molto diverse tra loro. La giornalista ne spiega la differenza in uno dei suoi lavori più importanti, dando anche adito a diverse polemiche. I secondi sono solo persone che aiutano a passare il confine ai clandestini, i primi veri criminali.
Nancy ha passato la vita sul campo, integrandosi con uomini e donne del paese che l’ha adottata. Poi, con la nascita dello stato islamico libico, il sogno è finito e ventuno copti sono stati decapitati a Sirte in una macabra cerimonia. Nel 2016 il caos è stato totale, lei è andata in burn out ed è scappata un anno dopo. Ha iniziato una nuova fase della sua vita, in Italia con il suo compagno libico e un bimbo.
I registi hanno seguito la gravidanza della donna, cui manca l’adrenalina del suo lavoro. “Telling My Son’s Land” è uno straordinario documento sulla forza delle donne e sull’importanza dei giornalisti free lance che raccontano la guerra senza alcuna protezione ufficiale: imperdibile nella sua semplicità.
Ivana Faranda
Trama
- Regia: Roberto Mariotti, Ilaria Jovine
- Cast: Nancy Porsia
- Genere: documentario
- Produzione: Italia, 2021
- Durata: 84 minuti
- Distribuzione: Blue Penguin Film
“Telling My Son’s Land ” è un documentario presentato in concorso in numerosi festival internazionali, tra cui: Biografilm Festival, Matera Film Festival, Mònde 2021, Sguardi Altrove International Women’s Film Festival e Verzio Documentary Film Festival.
Telling My Son’s Land : la trama
Nancy Porsia è una giornalista freelance, che nel 2011 arriva in Libia per la prima volta quattro giorni dopo la morte di Gheddafi. É l’unica giornalista internazionale a raccontare il travagliato processo di democratizzazione del paese, diventando uno dei massimi esperti del paese nord africano. Lascerà la Libia in seguito alla pubblicazione di una scottante inchiesta sulla collusione della Guardia Costiera Libica con il traffico di migranti, nel 2017. Dopo tre anni, la terra di suo figlio continua ad essere pericolosa per la sua sicurezza, ma lei spera di poterci tornare.
Note di regia
I ricordi, le riflessioni, le confessioni richieste e concesse dalla nostra protagonista sono finalizzate (Blue Penguin Film S.r.l.s. Via Arcivescovo A. Martini, 6 59100 Prato P.Iva IT02440090971 Codice Univoco: M5UXCR1 www.bluepenguinfilm.com) alla creazione di un’autonarrazione che, ricostruendo l’esperienza umana, professionale e politica di Nancy, consenta agli spettatori anche di addentrarsi negli aspetti più personali del fare giornalismo freelance in aree di conflitto, nonché nelle ripercussioni anche psicologiche dell’essere reporter di guerra, laddove ad essere una giornalista di guerra è una donna, che decide poi di diventare madre. Sullo sfondo, la purtroppo ancora attualissima questione libica e la connessa, insanabile, piaga del traffico di migranti.
Dunque il primo elemento di composizione registica di tale materiale narrativo è dato da un continuo rimpallo tra Grande Storia e Microstoria personale, in un gioco di rimandi visivi (e visionari) con il materiale di archivio che sottolineino la fusione tra questi due piani cronologici. Fusione che per noi è stata determinante, visto che proprio il fatto che la vicenda privata e personale di Nancy sia autenticamente e fatalmente (nel senso etimologico del termine) intrecciata con la Grande Storia, ci ha spinto a sceglierla come protagonista di una storia da raccontare. Nella biografia di questa moderna figura femminile, infatti, non ci sarebbe il suo primo figlio, se in Libia non fosse scoppiata una rivoluzione e lei non avesse deciso di andare a raccontarla. Secondo cortocircuito tematico ed emotivo, che ci ha spinto a fare questo tipo di film e orientato nelle riprese, è stato quello derivato dalla decisione del dare vita in un contesto in cui si dà la morte. Guerra e maternità, carriera e famiglia: siamo partiti da queste antinomie (che per una donna diventano spesso bivi esistenziali), salvo poi arrivare a capire quanto anche gli estremi più distanti, come la vita e la morte, possano in realtà essere uniti.