La crescente cultura del consumismo sfida il mondo contemporaneo, sollevando interrogativi su ciò che davvero ci spinge ad acquistare incessantemente. Il documentario di Netflix “Buy Now – L’inganno del consumismo” esplora questi temi attraverso le testimonianze di ex dirigenti di importanti aziende come Adidas, Unilever e Amazon, rivelando le conseguenze devastanti di un sistema che premia la produzione a dismisura. Attingendo a case history e statistiche allarmanti, il film mette in luce le problematiche legate non solo all’obsolescenza programmata dei prodotti, ma anche all’impatto ambientale devastante di scelte commerciali a corto termine.
La produzione compulsiva: numeri da incubo
Il documentario “Buy Now” non lascia dubbi sulla vastità della produzione moderna di abbigliamento. Secondo le statistiche fornite, marchi come GAP, H&M, Zara e Shein esercitano un impatto notevole sull’industria tessile globale, lanciando annualmente un numero crescente di nuovi capi. Si stima che GAP produca circa 12.000 nuovi articoli ogni anno, mentre H&M arriva a 25.000. Zara non è da meno, con 36.000 capi in produzione, ma è Shein a far emergere la vera misura del problema, con oltre un milione e 300.000 articoli.
Questo comportamento ha un effetto dirompente: fino a pochi decenni fa, il ciclo dell’abbigliamento seguiva le stagioni, con collezioni lanciate semestralmente. Oggi, invece, nuovi modelli vengono presentati ogni settimana. La diretta conseguenza di questa frenesia produttiva è la generazione di enormi quantità di rifiuti, prevedendo scenari catastrofici per il futuro. Utilizzando tecnologie avanzate come l’intelligenza artificiale, il documentario ipotizza che nel 2050 i centri urbani di grandi metropoli, come Tokyo, sarebbero sommersi dai rifiuti tessili, creando una crisi ambientale senza precedenti. La questione non è più solo commerciale, ma diventa una sfida planetaria, a cui tutti siamo chiamati a rispondere.
Obsolescenza programmata: una strategia dannosa
Un altro tema centrale analizzato nel documentario è quello dell’obsolescenza programmata. Utilizzando Apple come principale esempio, viene messo in evidenza il ciclo di vita ridotto dei dispositivi tecnologici. Dagli auricolari wireless agli elettrodomestici, i prodotti vengono costruiti in modo tale da incentivare i consumatori a sostituirli più frequentemente. Kyle Wiens, CEO di iFixit, esprime grave preoccupazione per la mancanza di manuali di riparazione, che prima venivano forniti dalle aziende stesse. Ora, le guide per la riparazione sono spesso invisibili, mentre le pratiche aziendali si orientano verso la creazione di prodotti sempre più complessi e meno riparabili.
Le conseguenze di questa strategia giungono a quota 13 milioni di telefoni buttati via ogni anno. Questo numero testimonia un sostanziale ricambio di dispositivi ogni pochi anni, associato a un ulteriore quantitativo di circa 50 milioni di dispositivi elettronici scartati annualmente in tutto il mondo. La questione si fa complessa quando si parla della gestione di questi rifiuti. L’investigatore Jim Puckett mette in luce come i rifiuti elettronici vengano frequentemente esportati illegalmente in paesi con normative ambientali più deboli, come la Thailandia. Lì, i lavoratori, spesso esposti a sostanze tossiche, smontano i dispositivi a mano per recuperare materiali preziosi, mentre i pericoli per la salute aumentano.
Greenwashing: la facciata di sostenibilità
Il fenomeno del greenwashing emerge come una delle maggiori ingiustizie del nostro tempo. Il documentario mette sotto la lente d’ingrandimento pratiche discutibili delle aziende, mostrandole in contraddizione con i principi di sostenibilità. H&M, ad esempio, promuove un’iniziativa per il ritiro di capi di abbigliamento usati, promettendo di riciclarli. Tuttavia, la realtà è molto diversa: molti dei capi non riciclati vengono semplicemente inviati in Ghana. Qui, ogni settimana, circa 15 milioni di nuovi capi di abbigliamento arrivano, molti dei quali sono abbandonati sulle spiagge locali, creando uno scenario di inquinamento allarmante.
Questo tipo di marketing ingannevole sembra occultare le reali responsabilità delle aziende nei confronti dell’ambiente e dei consumatori. In effetti, mentre il consumo cresce sempre di più, le vere politiche green rimangono spesso un’illusione; le aziende non sono realmente interessate a mitigare il loro impatto ambientale, se non per ottenere vantaggi di immagine. Chloe Asaam, stilista ghanese, sottolinea l’assurdità di tale sistema, evidenziando quanto poco cambi rispetto alle reali problematiche che il settore dell’abbigliamento deve affrontare.
Nuove abitudini di consumo: il second-hand e la sostenibilità
Un aspetto che non viene trattato nel documentario riguarda il crescente interesse per il mercato dell’usato, che rappresenta una risposta diretta al consumismo sfrenato. Piattaforme come Vinted offrono possibilità di riutilizzo e riciclo di vestiti, permettendo ai consumatori di acquistare prodotti di seconda mano senza ampliare ulteriormente il ciclo produttivo. Stando ai dati del report “The State of Fashion 2025”, entro il 2023 le vendite di articoli di seconda mano copriranno il 10% del mercato globale di abbigliamento, con una crescita annuale del 12%, che potrebbe portare il segmento a un valore di 350 miliardi di dollari entro il 2028.
Questa crescente consapevolezza sui temi della sostenibilità è un passo importante nella direzione giusta, ma richiede cambiamenti profondi anche nelle dinamiche aziendali. Paul Polman, ex CEO di Unilever, afferma con chiarezza che finché il successo sarà associato esclusivamente alla capacità di produrre di più, i rischi e i danni ambientali continueranno a crescere. Le sostanze chimiche nocive degli scarti inquinano infatti il nostro ambiente, causando malattie e danni irreparabili. È quindi fondamentale affrontare la questione dello smaltimento con la dovuta responsabilità e prendere coscienza del proprio ruolo nell’affrontare queste sfide.