Il documentario di Bruce Weber sul jazzista Chet Baker, un uomo dai mille volti
Regia: Bruce Weber – Genere: Documentario, b/n, 119 minuti – Produzione: USA, 1998.
“Let’s Get Lost”, film di Bruce Weber, su e con Chet Baker, esordisce nel 1989 al Festival di Venezia dove porta a casa il premio dei critici e da allora non ha mai perso la sua capacità di colpire al cuore dello spettatore.
Chet era l’uomo con la tromba, con un viso d’angelo e un fascino che non perdonava. Era il James Dean del jazz, un bianco capace di mettere in ombra tanti musicisti di colore, da sempre padroni del genere. Un talento vero che si palesò da subito tanto che il musicista Charlie Parker si accorse di che pasta era fatto non appena lo sentì suonare la prima in un club di New York.
L’americano Bruce Weber, affascinato dallo straordinario personaggio, lo racconta a 360 gradi, come musicista di talento, tossicomane senza speranza e soprattutto come uomo.
Il risultato è un ritratto affascinante, non solo per chi ama il jazz. In “Let’s Get Lost” c’è tutto il fermento degli anni ’60, quando, tra gli USA e la Francia, i beats sovvertivano un mondo di regole preordinate. Lo fece Keruack con il suo romanzo “Sulla strada” e lo fece Charlie Parker con il Be Bop. Su quest’onda s’inserisce Chet Baker, che però è più lirico e romantico, e suona il jazz della West Coast, più morbido e con l’uso della voce per ballate struggenti.
Bruce Weber intervista la maggior parte delle persone che hanno conosciuto Baker: dalle sue donne, madre compresa, ai musicisti e discografici che hanno lavorato con lui. Utilizzando uno straordinario bianco e nero e montando immagini di repertorio e preziosi spezzoni di concerti, entra in un mondo di loser ma anche di grande musica.
Il regista usa tanti primi piani per raccontare tutta la vita del jazzista attraverso le rughe profonde del suo viso e dal suo tono di voce strascicato. Ma basta che lui prenda in mano la sua tromba e suoni e tutto cambia. Il dolore sparisce d’incanto e lo spettatore finisce per desiderare di vedersi dedicare “Almost Blue” o “My Funny Valentine”.
E poi arrivano i racconti disincantati e amari della madre Vera, dei suoi tre figli con la terza moglie Carol, da cui non ha mai divorziato. Ma anche della cantante jazz, Ruth Young, sua compagna per dieci anni, e della batterista Diane Vavra, quella che, tra alti e bassi, ha resistito con lui fino alla fine. L’uomo Chat è tutto nei chiaroscuri delle sue interviste al regista, fatte con voce fuoricampo e riprese volutamente prive di simmetria. Chet mente palesemente e confonde i suoi stessi ricordi, quando parla con Bruce. Ma quanto conta poi questo? Per raccontare Baker, Weber è dovuto entrare nel suo mondo, dove i contorni tra realtà e immaginazione non sono così netti.
Del resto, tutta la lavorazione del film è stata complicatissima proprio a causa di Mr. Baker, che spariva o arrivava troppo tardi sul set. La forza di “Let’s Get Lost” è proprio qui: perdersi nella vita vera e lasciare che cose accadono da sole. E così succede che il regista sostituisca il protagonista che non arriva con dei cuccioli che giocano sulla spiaggia di Malibù.
Il film si chiude con una straordinaria esibizione di Baker a Cannes, nel 1998, accanto a Diane, che non lo perde di vista un minuto. Le ultime parole che dice a Weber sono che vuole fare ancora tante cose nella vita: comprare una casa, avere il pianoforte che non ha mai avuto per comporre musica. Non andrà così. Chet morirà poco dopo le riprese, a cinquantotto anni, in modo misterioso, cadendo da una finestra di un hotel di Amsterdam. Con la sorpresa di tutti, non ha neanche una goccia di eroina in vena. Non viene riconosciuto subito e viene preso per un trentenne senza documenti. Quando lo trovano, stringe la sua tromba tra le mani, così come ha sempre fatto, per perdersi nella musica e nella vita, perché sono la stessa cosa.
Cialtrone ma affascinante, tossico ma grande artista e personaggio pieno di carisma. Tutto questo era Chet Baker, raccontato magnificamente da Bruce Weber in “Let’s Get Lost”, una pellicola senza tempo con una colonna sonora che dà senso a tutto.
Ivana Faranda