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Foxcatcher – Recensione

Foxcatcher – Recensione

Una storia di sport e sangue, tra volontà di trionfo e complessi psicologici insanabili

Regia: Bennett Miller – Cast: Channing Tatum, Mark Ruffalo, Steve Carell, Anthony Michael Hall, Sienna Miller – Genere: Drammatico, colore, 134 minuti – Produzione: USA, 2014 – Distribuzione: Bim – Data di uscita: 12 marzo 2015.

Foxcatcher-locDopo aver trattato in “L’arte di vincere” la vicenda della squadra di baseball degli Oakland Athletics – con l’innovazione dell’approccio “sabermetrico” nella valutazione dei giocatori da parte del general manager Billy Bean -, anche in “Foxcatcher” il regista Bennett Miller approfondisce una storia straordinaria legata al mondo sportivo, stavolta quello della lotta libera. Il tema sportivo si unisce qui a quello sanguinario, legato all’omicidio dell’atleta campione olimpionico Dave Schulz: il film assume sotto alcuni aspetti la sembianza del thriller. La narrazione è basata su fatti realmente accaduti, e ruota attorno a un triangolo i cui tre vertici sono dati dai fratelli Mark e Dave Schulz, campioni di lotta, e dal ricco John Du Pont, aspirante mecenate delle loro imprese sportive, nei cui panni Steve Carell riesce ad offrire una prestazione attoriale davvero notevole.

Gli incroci relazionali dei due fratelli con Du Pont sono permeati di ambiguità: la figura e i comportamenti del miliardario stravagante risultano eccentrici e di difficile lettura; lo stesso rapporto tra i fratelli finisce così per deteriorarsi, a contatto con l’elemento estraneo che ben presto diventa termine di riferimento imprescindibile. Il punto di squilibrio fondamentale è dato dal malessere di Mark, il più giovane: nonostante abbia già raggiunto traguardi di primo rilievo (anche una medaglia olimpionica), è forte il desiderio di affrancarsi dal celebrato Dave, riconosciuto come maestro indiscusso della lotta. Si instaura così una triplice catena: Mark si allontana forzatamente da Dave e trova rifugio nella visione del mondo di Du Pont, permeata di trionfalismo americano e di desiderio di affermazione; Dave cerca di recuperare il rapporto col fratello, spezzatosi in una maniera brusca e apparentemente inesplicabile, finendo anch’egli nell’alone protettivo del mecenate; Du Pont vive un conflitto aperto tra la volontà di porsi a tutti i costi come mentore dei due atleti – facendosi attraverso loro eminente portavoce della grandezza della patria – e il desiderio di svincolarsi dalla sudditanza “edipica” avvertita nei confronti dell’anziana madre, simbolo incarnato di un atavico vincolo familiare mai saldato.

L’aspetto sportivo confluisce in una fisicità esibita: tra lotte, allenamenti e sfoghi rabbiosi, l’insistenza sul volto e sul corpo di Mark Schulz è protratta e scavata a fondo. Più che gli scambi verbali, a dominare nei rapporti tra i protagonisti sono proprio le strette fisiche, siano esse prodotto di allenamento, di scherzo o di punizione. Il ritmo narrativo è lento, sofferto, scandito da piccole esplosioni e rotture. Un mutamento costante è riscontrabile solo nel personaggio di Mark: Dave da una parte e Du Pont dall’altra finiscono nella sua prospettiva a porsi in conflitto perenne; affidandosi alternativamente all’uno o all’altro, Mark trasforma il suo corpo e il suo carattere in un processo sempre combattuto e problematico.

Il sogno trionfalistico di Du Pont, quello di tramutare la tenuta da caccia familiare nel centro sportivo olimpionico Foxcatcher, coabita con il dramma psicologico non esibito dello stesso ricco mecenate: dietro i suoi atteggiamenti goffi e stralunati sembra sempre nascondersi qualcosa di grave, eppure nulla emerge davvero fino alla deflagrazione finale, nella quale gli accessi parossistici della competitività sportiva confluiscono in una deformazione caratteriale insanabile, con le conseguenze che ne derivano.

Marco Donati

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