Biografia
Regista per vocazione e autodidatta compulsivo della storia del cinema, Paul Thomas Anderson riesce a sintetizzare nelle sue opere fuori dagli schemi l’inclinazione autoriale e le lezioni dei grandi maestri di riferimento.
Paul Thomas Anderson, una nuova estetica complessa
(Studio City, California, 26 giugno 1970)
La predisposizione registica di Paul Thomas Anderson ha modo di esprimersi molto presto, quando il padre gli compra una videocamera Betamax: è il 1982, Anderson ha dodici anni e le prospettive future convergono già verso un obiettivo preciso, quello di intraprendere la carriera del cineasta.
Nato e cresciuto nella terra di Hollywood, tra Studio City e la San Fernando Valley, P.T. è il terzo di nove figli. Al rapporto conflittuale con la madre fa da contraltare una stretta convergenza di interessi con l’altro genitore, che da subito lo sprona ad assecondare la sua passione ossessiva per le riprese in movimento e ad affinare le sue capacità di scrittura.
Nel 1988, prima di uscire dalla high-school, Anderson gira un “mockumentary” – una storia di finzione elaborata in versione documentaria, con annesso ribaltamento parodistico –, finanziando questa prima impresa con i guadagni di un lavoretto svolto presso un negozio di animali domestici: è la vicenda di una star dei film porno degli anni settanta, “The Dirk Diggler Story”, una mezzora di durata, ed è anche la base strutturale su cui andrà ad innestare otto anni dopo il suo primo capolavoro, “Boogie Nights”.
Messo presto da parte il college, tra scommesse e aiuti finanziari paterni P.T. si avvia alla carriera di assistente di produzione per film televisivi e video musicali, tra Los Angeles e New York. La sua prima iniziativa di una certa rilevanza richiede un esborso di ventimila dollari: è un cortometraggio dal titolo “Cigarettes and Coffee”, tutto giocato su una serie di diverse story-lines che si intrecciano attorno a un biglietto da venti dollari. Non passa inosservato, tanto da essere selezionato al Sundance Festival Shorts Program del 1993. Volendo espandere l’impegno a un lungometraggio, Anderson entra l’anno successivo al Sundance Feature Film Program in qualità di allievo: qui incontra lo scozzese Michael Caton-Jones, futuro regista di “The Jackal” e “Basic Instinct 2”, che apprezza il talento e la visione peculiare del giovane californiano, facendogli da mentore per diversi anni.
Da “Hard Eight” a “Boogie Nights”: rivendicazione di una nuova estetica
Il primo lungometraggio, “Hard Eight”, viene selezionato nella sezione Un Certain Regard del Festival di Cannes, nel 1996, dopo una serie di vicende piuttosto travagliate: finanziato originariamente dalla Rysher Entertainment con il titolo “Sidney”, il film viene sottoposto a parziale riscrittura dal produttore dopo il suo completamento; Anderson non si lascia passare la mosca sotto il naso, e riesce ad ottenere un finanziamento tramite fundraising di 200.000 dollari, con contributi provenienti, tra gli altri, da Gwyneth Paltrow e John C. Reilly. Il film che viene presentato a Cannes, con il titolo mutato – e definitivo – è quello scritto originariamente da Paul Thomas Anderson, epurato delle modifiche apportate da Rysher. L’accoglienza della critica è positiva.
La prima netta consacrazione – quella che gli fa valere l’appellativo di “enfant prodige” a livello internazionale – arriva l’anno successivo, con “Boogie Nights”, mettendo una volta tanto d’accordo critici e botteghini. Il film espone la vicenda biografica fittizia (ispirata da quella vera di John Holmes) di un porno-star nella Los Angeles degli anni settanta, tra fumi tossici e volontà di autoaffermazione. Notato e voluto a tutti i costi da Michael De Luca, presidente della New Line Cinemas, il film si avvale di un cast di livello altissimo, lanciando le carriere di Mark Wahlberg e Julianne Moore e rispolverando un Burt Reynolds in gran forma nei panni del produttore Jack Horner. Arrivano tre nomination al premio Oscar: una per Reynolds, una per Julianne Moore e un’altra per la migliore sceneggiatura originale.
L’affresco anti-narrativo e l’apertura prospettica intrecciata in “Magnolia”
Il 1999 è l’anno di “Magnolia”, ancora prodotto dalla New Line e ancora protagonista di tre nomination all’Oscar: stavolta alla sceneggiatura si aggiungono la performance strepitosa di Tom Cruise e la canzone “Save Me” di Aimee Mann, candidata come miglior canzone originale. “Magnolia” è un affresco icasticamente potente di una giornata nella San Fernando Valley, con l’incrocio di una serie di vicende individuali reciprocamente connesse, in misura maggiore o minore. Non si aggiudica neanche un Oscar, ma arriva comunque la prima notevole gratificazione personale per P.T. in termini di prestigiosi premi internazionali, con la vittoria dell’Orso d’Oro al Festival di Berlino. La collaborazione con Aimee Mann per la colonna sonora rimane un aspetto estremamente significativo e caratterizzante del film: in ogni produzione andersoniana, del resto, la musica è elemento cardine e non mero ornamento, frutto di una selezione accurata e mai gratuita, denotativa peraltro di una competenza estesa e non settoriale.
Nel 2001 Paul Thomas Anderson avvia una relazione con l’attrice Maya Rudolph, che più avanti sposerà e dalla quale avrà quattro figli, e l’anno successivo è quello di “Punch-Drunk Love”, reso dalla distribuzione italiana con un poco efficace “Ubriaco d’amore”: una commedia tra surreale, patetico e grottesco, con un alienato ed efficace Adam Sandler nei panni del protagonista. Sebbene ribadisca in qualche modo la linea poetica intrapresa dal regista e abbia delle aperture deflagranti in alcune scene tendenti al delirio, si tratta in linea generale di un piccolo passo indietro rispetto ai due capolavori precedenti, dei quali “Ubriaco d’amore”, pur mantenendo un buon livello nella sceneggiatura e nei dialoghi, non ha la stessa carica rappresentativa e a tratti sovversiva.
Una pausa, poi la consacrazione definitiva
Esponente di punta della nuova generazione di cineasti americani formatisi da autodidatti, studiando e divorando pellicole su pellicole, senza frequentare alcuna scuola di formazione specifica, Paul Thomas Anderson non ha mai nascosto, anche in interviste pubbliche, le influenze derivanti da alcuni grandi maestri di riferimento, capaci di segnarlo profondamente nel suo percorso autonomo e sperimentale di apprendimento: il gruppo dei suoi “mentori” annovera personalità del calibro di Robert Altman, Orson Welles, John Huston, Martin Scorsese, Stanley Kubrick.
Dopo cinque anni di silenzio, Anderson torna sulla scena e lo fa da protagonista assoluto del nuovo panorama cinematografico mondiale: “There Will Be Blood”, ovvero “Il petroliere”, fonde le lezioni dei grandi maestri – in primis Kubrick e Altman – in una sintesi di enorme potenza visiva e spessore narrativo. Nella vicenda dell’ascesa di un petroliere americano nel primo Novecento c’è la raffigurazione emblematica, distaccata e complessa della decadenza del sogno americano e della contraddittoria struttura economica, sociale e politica del capitalismo imperante. Protagonista è un Daniel Day-Lewis strepitoso nella varietà sfaccettata ed esaltata con cui riesce a rendere la frenesia comportamentale, l’avida ossessività e la progressiva follia del suo personaggio, carismatico e simbolico al tempo stesso. Due i premi Oscar aggiudicati su otto candidature complessive, uno appunto a Daniel Day-Lewis, l’altro a Robert Elswit per la fotografia; numerosi i riconoscimenti in ambito internazionale, tra i quali spicca la conferma berlinese con l’Orso d’Argento per la regia.
La potenza visiva: da “The Master” a “Vizio di forma”
“The Master”, nel 2010, segna l’inizio del sodalizio artistico con Joaquin Phoenix, protagonista del film assieme a Philip Seymour Hoffman – attore feticcio di P.T., qui alla sua interpretazione più importante – e Amy Adams. In “The Master” il filo conduttore narrativo si comprime per lasciar fluire un’espressività libera e introspettiva, basata fortemente sulle caratterizzazioni dei singoli personaggi e sul loro particolare ed imprevedibile modo di rapportarsi. Presentato a Venezia, “The Master” intasca il Leone d’Argento per la regia e la Coppa Volpi per le interpretazioni di Joaquin Phoenix e Philip Seymour Hoffman.
L’ultimo lavoro è “Inherent Vice” (2014), in italiano “Vizio di forma”, adattamento dal romanzo omonimo di Thomas Pynchon. Ancora una sfida di difficoltà estrema, ancora un successo: Paul Thomas Anderson riesce nell’impresa di rendere visivamente efficace la trasposizione del romanzo post-moderno per antonomasia, composto mediante uno stile espressionista, visionario e proteiforme, accompagnato e supportato in questa impresa da un’altra strepitosa prestazione attoriale, ancora di Joaquin Phoenix, stavolta nei panni dell’investigatore Larry “Doc” Sportello. Attraverso una consequenzialità non lineare di vicende di volta in volta grottesche, surreali, violente e nebulose, Anderson ricostruisce – con la mediazione di Pynchon – un affresco peculiare della California degli anni settanta, la stessa di “Boogie Nights”, qui rivisitata però in una prospettiva dilatata e poli-prospettica, in una stratificazione di depistaggio narrativo, disincanto individuale e complessità rappresentativa.
Il 22 febbraio 2018 uscirà il suo nuovo film “Il filo nascosto” con Daniel Day Lewis protagonista nelle sua ultima interpretazione prima di ritirarsi, nuovamente, dal mondo del cinema. L’attore veste i panni del rinomato stilista Reynolds Woodcock la cui vita, accuratamente pianificata, viene stravolta quando si innamora della giovane e audace Alma.
Marco Donati
Filmografia
Paul Thomas Anderson Filmografia – Cinema
- Sydney (1996)
- Boogie Nights – L’altra Hollywood (1997)
- Magnolia (1999)
- Ubriaco d’amore (2002)
- Il petroliere (2007)
- The Master (2012)
- Vizio di forma (2014)
- Il filo nascosto (2017)