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Il figlio di Saul – Recensione

  • Titolo originale: Saul Fia
  • Regia: László Nemes
  • Cast: Géza Röhrig, Levente Molnar, Urs Rechn, Sandor Zsoter, Todd Charmont, Björn Freiberg, Uwe Lauer, Attila Fritz
  • Genere: Drammatico, colore
  • Durata: 107 minuti
  • Produzione: Ungheria, 2015
  • Distribuzione: Teodora Film
  • Data di uscita: 21 gennaio 2016

 

“Il figlio di Saul”: un’ottima opera prima, Gran Premio della Giuria a Cannes e Miglior Film Straniero ai Golden Globe

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Nessun tema è stato mai trattato tanto dal cinema internazionale come l’Olocausto, una delle più grandi e gravi tragedie umane sulla quale si basa “Il figlio di Saul”, opera prima del giovane regista ungherese Làszlo Nemes, che lascia un segno indelebile ed emotivamente incisivo nello spettatore. Il film si apre con un lungo piano sequenza, senza battute, sul volto di Saul Auslander/Geza Röhrig, che ha l’infausto compito di accompagnare i nuovi arrivati ad Auschwitz. Saul fa parte del Sonderkommand, gruppo di deportati che in cambio di condizioni di vita migliori si occupano della pulizia delle camere a gas e dei forni crematori.

Quando si chiudono le porte dei locali adibiti a zona dedicata alle camere a gas, le urla disperate delle vittime invadono letteralmente l’inquadratura. Non resta che prendere i poveri corpi nudi delle vittime e pulire tutto per una nuova operazione, dopo averli privati degli abiti, e dei pochi oggetti di valore rimasti. Quando vede uccidere un ragazzo, sopravvissuto alla camera a gas, che potrebbe essere suo figlio, irruenta tornerà in Saul l’umanità, persa in quell’orrore. A rischio della sua stessa vita, l’uomo cercherà un rabbino per dare alle spoglie del ragazzo una degna sepoltura, come se in quella tragedia quotidiana che vive Saul, si fosse accesa una piccola luce, che lo riporta in vita.

Il figlio di Saul: un film duro sulla Shoah, una cruda battaglia emotiva attraverso la quale si sviluppa una storia di vita dietro la morte

Per tutto il film, il regista mostra con una crudezza mai vista prima la vita nei campi di concentramento: i corpi delle vittime sono per i tedeschi solo “Stück”, ‘pezzi’ in tedesco, tristemente equiparati, né più né meno, a delle parti di ricambio di una macchina; il campo è organizzato con la precisione e il rigore di un’azienda automobilistica, come potrebbe essere la Volkswagen. I forni crematori fanno sparire nel nulla milioni di vite grazie ai rapporti complessi tra sonderkommando, Oberkapos e SS, tutti pezzi di un ingranaggio tanto crudele quanto efficiente.

Gran parte della forza di questo film sta nella perizia tecnica di Nemes, degno allievo di Bèla Tarr. L’effetto claustrofobico della narrazione , già forte di suo, è enfatizzato dall’uso del 4.3 e della pellicola in 35mm, il tutto unito da un diaframma chiuso che rende sfuocato tutto ciò che accade intorno a Saul. La camera a mano lo segue continuamente con inquadrature a prima vista illogiche, senza totali. La prospettiva di Saul è apparentemente soggettiva e sono estremamente importanti i rumori di sottofondo che mettono volutamente angoscia nello spettatore né più e né meno delle immagini che li accompagnano. Inoltre, Geza Rohrig, attore non professionista che interpreta Saul, è a dir poco eccellente, nella sua corsa continua nell’inferno del campo alla ricerca di un rabbino per una degna sepoltura di quel povero corpo. Non si capisce se il ragazzo è veramente suo figlio, ma questo non è assolutamente essenziale ai fini della storia. Saul alla fine riuscirà a ‘salvarlo’ – e con lui se stesso – in un’unica scena di grande tenerezza che vale da sola tutto il film.

“Il figlio di Saul” è una grande opera, anche se dà un pugno allo stomaco che colpisce al limite del sopportabile. Il regista suggerisce efficacemente molto più di quanto faccia vedere, con l’effetto di portarci dentro l’orrore di Auschwitz. Rispetto alla leggerezza che diventa superficialità di “La vita è bella” di Benigni, qui si vola alto e non si può che ammirare il coraggio di questo giovane regista e la sua grande abilità tecnica anche nell’uso dei rumori di sottofondo.

In linea teorica “Il figlio di Saul” sarebbe perfetto da distribuire anche senza doppiaggio, perché potrebbe essere quasi impossibile riprodurre in italiano le sonorità dure del parlato dei protagonisti. Superpremiato a Cannes il lavoro di Laszlo Nemers non si concentra solo sull’Olocausto, ma serve a ricordare a tutti noi quanto sia facile per l’uomo perdere la sua umanità. Un ottimo candidato come film straniero ai prossimi Oscar.

Ivana Faranda

Il figlio di Saul – Recensione

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