Recensione
Shining: quarant’anni al di sopra della storia del cinema?
Stanley Kubrick starebbe spegnendo novantadue candeline se fosse ancora vivo oggi, mentre quest’articolo viene scritto, il 26 luglio del 2020. Forse ci avrebbe benedetto con qualche altra opera dopo quel testamento, dal gusto talora dubbio, che fu “Eyes Wide Shut” (1999). Certamente oggi troverebbe una realtà molto diversa da quella che ha lasciato. Nell’attesa dell’uscita di “Tenet”, di Christopher Nolan, il quotidiano francese “Le Monde” si interroga su chi sappia ancora oggi davvero riempire le sale, e trova il campione di un certo cinema d’arte “pop” proprio nell’autore britannico.
E Kubrick, allora? Cosa sarebbe capace di fare adesso, a quarant’anni dall’uscita di “Shining” (1980)? Quel film, che risollevò le sorti del regista con incassi milionari, che tutti hanno visto, che la critica ha quasi compattamente sopraelevato dal flusso della storia facendone, come è avvenuto per quasi tutta la produzione di Kubrick, un capolavoro senza tempo, di proporzioni sovrumane – quel film, adesso, sarebbe ancora capace di coinvolgere il pubblico e ridare vita al cinema, in tempi di clausura?
Un’opera senza storia…
“Shining” è un film che, in versione home video, gode di una diffusione straordinaria. C’è chi ha avanzato l’ipotesi che Kubrick abbia consapevolmente precorso lo sviluppo delle tecnologie di proiezione domestiche, concependo una pellicola che raffina la propria fruibilità proprio nel contesto della casa, dell’isolamento, del riparo (apparente) delle mura note.
Come succede spesso per le opere del regista americano, si farebbe forse fatica a dargli una collocazione temporale. Che sia uscito nel 1980, un anno di svolta nella storia del cinema horror, è quasi indifferente allo spettatore che può ancora goderne come di un film contemporaneo. Anzi, ribadire che se il 1980 fu un anno di tale importanza per il genere è anche merito di “Shining” è diventata quasi una blasfemia – come se permettersi di inserirlo dentro la storia, dentro il dibattito coevo, fosse un modo di limitarne la portata.
Il fatto che Kubrick abbia sempre lasciato che il genere, in tutte le sue forme, contagiasse la sua produzione passa in secondo piano, così come il suo straordinario successo di pubblico. E si stabilisce una gara alla ricerca dei significati nascosti, esoterici, segreti delle sue opere: “Shining” come metafora dello sterminio degli indiani, dell’Olocausto… persino cripto-dichiarazione, da parte di Kubrick, del suo presunto coinvolgimento nella contraffazione delle immagini dell’allunaggio! Sembra così che l’esigenza di fondo sia quella di rintracciare, nel film mainstream, una nicchia oscura che il singolo critico, il singolo esperto, possa riservare per sé. E quanto sarà poi giustificato, quest’affanno? Ricordo una conversazione con un mio amico, uno storico dell’arte, che un giorno mi disse candidamente: “ma non è vero, 2001 [“2001: odissea nello spazio”, 1968], semplicemente, non significa niente”. O qualcosa del genere. Fair enough.
…con un prima…
Staccare l’opera di Kubrick dal suo contesto, però, anziché sottolinearne una presunta “universalità” (cosa sarà mai, poi? Nessuno si cura di specificarlo…), non fa che svilirne il valore.
“Shining” fu un fenomeno di massa, un fenomeno con esiti diversi (e forme diverse: si pensi ai 25 minuti espunti dalla versione europea) sulle due sponde dell’oceano. Fu un fenomeno straordinario, nuovo – ma non isolato. A partire da Griffith, le citazioni del film abbondano. Lo stile visivo di Bergman, ma ancor più quello, dalle prospettive di ampiezza epica, del Lean de “Il ponte sul fiume Kwai” (1957) e “Lawrence d’Arabia” (1962), permea la sua impronta altamente stilizzata, convintamente geometrica, dai contrasti netti e dai colori forti. E se nell’horror non gli mancano riferimenti che ci fregeremmo di definire “colti”, a “Eraserhead” (1977) di Lynch per esempio, la realtà è che abbondano anche i mutui dalla tradizione meno destrutturata del genere, da “Il Presagio” (1976) di Richard Donner a “Ballata macabra” (1976) di Dan Curtis fino a “Changeling” (1980) di Peter Medak. E, in barba alle numerose spiegazioni variamente metafisiche fornite per il finale iconico della pellicola, molti sostengono che la scelta fatidica dell’anno 1921 sia, in primo luogo, un omaggio al Victor Sjöström de “Il carretto fantasma” (proprio di quell’anno).
…e un dopo
“Amityville Horror” (Stuart Rosenberg, 1979), “Shining” (1980), “La casa” (Sam Raimi, 1981): nell’arco di tre anni il cinema horror ricevette la giusta dose di adrenalina per passare dagli anni di Satana a quelli di Reagan (si perdoni la ripetizione). Si stava per entrare in un nuovo tipo di scare, illuminato al neon, fatto di campiture nette, immagini chiare, e impianti narrativi ampi.
Kubrick riuscì da una parte a confermare il progresso di eccentrica nobilitazione del genere che andava avanti almeno dal ’68, da un’altra offrì un prodotto concepito come opera d’arte “alta” a un pubblico amplissimo. A distanza di 39 anni, il veterano Mike Flanagan ha portato nelle sale “Doctor Sleep” (2019), riuscendo peraltro nello scopo di pacificare il riottoso Stephen King rispetto all’adozione, forse illegittima, dei Torrance da parte del mondo del cinema. A una delle due opere sarà forse concesso di far parte della storia. Di invecchiare, di essere riscoperta, di dire cose diverse a generazioni diverse. L’altra, invece, dovrà essere salvata dal pubblico, da noi: la critica ne ha già fatto una mummia.
Lorenzo Maselli
Recensione
“Shining” – Recensione: Enigmatica e geniale trasposizione cinematografica di Stanley Kubrick del romanzo di Stephen King
La poliedrica personalità e i molteplici interessi di Kubrick gli hanno permesso di esplorare ogni orizzonte cinematografico esistente e di creare autentiche opere d’arte come “Lolita” (1962), “2001 Odissea nello spazio (1968), “Arancia Meccanica” (1971), “Full Metal Jacket” (1987) e “Eyes Wide Shut” (1999), che proprio come “Shining” sono ricchi di personaggi psicologicamente intricati e complessi.
“Shining”, diretto da Stanley Kubrick nel 1980, può essere considerato a tutti gli effetti un vero e proprio capolavoro, fortemente in contrasto con la produzione sanguinolenta e splatter tipica del periodo. Nel film (tratto dall’omonimo romanzo di Stephen King, che rimase irritato e sconcertato dal risultato finale del lavoro e decise in seguito di produrre un adattamento cinematografico più fedele alla sua opera) si racconta la storia di Jack Torrance (Jack Nicholson), un insegnante disoccupato a causa di un problema di alcolismo, che accetta il lavoro come guardiano invernale di un albergo in Colorado, non sapendo che questo era stato costruito sopra un cimitero indiano e che era stato teatro di un gesto di follia assassina da parte del vecchio guardiano, Mr. Grady, che aveva assassinato e tagliato a pezzi con un’accetta la moglie e le due gemelle di 8 anni.
Una volta giunti all’hotel Danny (Danny Lloyd), il figlio con doti telepatiche, entra in contatto con Mr. Halloran, il capo cuoco che gli rivela di essere anche lui in possesso della “luccicanza” (è il termine italiano che traduce la parola Shining), ovvero una sorta di magico potere tramite il quale le persone che lo padroneggiano possono prevedere eventi futuri e comunicare tra loro. Intanto Wendy (Shelley Duvall), la moglie, scopre segni di strangolamento sul collo di Danny e crede che ci sia qualcun altro nell’albergo oltre loro.
A questo punto Jack Nicholson mette in scena una delle sue performance più brillanti scatenando tutta la follia omicida del suo personaggio, regalandoci immagini e frasi inquietanti che entreranno nell’archivio della storia del grande cinema. Infatti lo scrittore completamente impazzito e indemoniato manomette radio e gatto delle nevi, compromettendo così ogni speranza di fuga, per poi cercare di uccidere moglie e figlio armato di un’accetta, proprio come aveva fatto a suo tempo Mr. Grady.
“Shining”: confusione e squilibri
“Shinign” ha la capacità di esemplificare tre condizioni di squilibrio mentale: un uomo paranoico, una donna isterica e un bambino schizofrenico, circondati da un elemento soprannaturale quasi metaforico e dalla claustrofobica presenza di luoghi in cui sembra non esserci alcuna via d’uscita. L’uso sapiente della steadicam concorre a spiazzare lo spettatore nella definizione dello spazio all’interno del quale si muovono gli attori; spazio che diviene esso stesso personaggio per eccellenza, se non addirittura coprotagonista. Quella che Kubrick ci ha regalato è una pellicola enigmatica, a tratti incomprensibile, che gioca sadicamente con chi cerca di trarne interpretazioni, offrendogli spiegazioni solo parziali e confondendolo con diabolici stratagemmi.
Nel 2012 Rodney Ascher ha provato a sciogliere la matassa con il documentario “Room 237” (con riferimento alla stanza dell’albergo del film), soffermandosi sulla geometria dell’Overlook Hotel e sviluppando una serie di interessanti teorie sui possibili significati nascosti che il regista, volontariamente o no, avrebbe voluto trasmettere con la sua opera, nata sì a partire da un buon romanzo, ma poi divenuta capolavoro indipendentemente da esso.
Giusy Del Salvatore
Trama
- Titolo originale: The Shining
- Regia: Stanley Kubrick
- Cast: Jack Nicholson, Shelley Duvall, Danny Lloyd, Scatman Crothers
- Genere: Horror, Thriller, colore
- Durata: 146 minuti
- Produzione: USA, 1980
- Distribuzione: Warner Bros
- Data di uscita: 22 dicembre 1980
In “Shining” Jack Torrance (Jack Nicholson), aspirante autore con trascorsi di alcolismo, assume l’incarico di guardiano invernale all’Overlook Hotel, tra le montagne del Colorado, dove si trasferisce con la moglie Wendy (Shelley Duvall) e il figlioletto Danny (Danny Lloyd). Quest’ultimo esibisce alcune peculiari abilità, tra cui quella medianica di discutere con un amico immaginario, “Tony”, capace di presentargli immagini del futuro.
Il capocuoco dell’albergo, Dick Hallorann (Scatman Crothers), si accorge delle qualità del bambino, che dice di possedere egli stesso, e che definisce “luccicanza” (the shining, in versione originale).
La permanenza della famiglia nell’hotel si trasforma presto in incubo, quando, sulla spinta di alcune visioni angoscianti e delle frustrazioni creative, Jack diviene ossessionato dall’idea di ripetere i gesti di Delbert Grady (Philip Stone), antico guardiano dell’albergo che, durante un lungo inverno in isolamento, aveva fatto a pezzi tutta la sua famiglia. Così, madre e figlio dovranno salvarsi da un padre che sprofonda, rapidamente, nella follia.
“Shining”: horror per eccellenza
“Shining”è un film diretto da Stanley Kubrick, adattamento cinematografico del romanzo omonimo di Stephen King. Sebbene l’autore non sia rimasto particolarmente soddisfatto dalla pellicola, a causa della poca fedeltà al suo libro, “Shining” di Kubrick è considerato un film cult e horror per eccellenza, eletto addirittura il secondo film horror migliore di tutta la storia del cinema in una classifica della rivista Time Out (il primo è “L’esorcista”).
Della pellicola “Shining” esistono ben tre differenti versioni: quella originale da 144 minuti, quella da 142 minuti e quella internazionale da 119 minuti. La versione originale, la più lunga, ebbe una sola settimana di vita, dopo la quale Kubrick decise di tagliare una scena finale della durata di due minuti, che per ordine della Warner Bros è stata poi eliminata da tutte le copie esistenti della pellicola. Per quanto riguarda, invece, la versione da 119 minuti, Kubrick rimise personalmente mano al montaggio di “Shining”, tagliando scene per una durata di ben 24 minuti.
Trailer
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