“Soffocare” cerca di trasferire in maniera del tutto fallimentare il genio di Chuck Palahniuk sul grande schermo
(Choke) Regia: Clark Gregg – Cast: Sam Rockwell, Anjelica Huston, Kelly Macdonald, Brad William Henke, Kathryn Alexander, Paz de la Huerta, Matt Gerald, Clark Gregg, Joel Grey, Viola Harris, Gillian Jacobs, Mary B. McCann, Bijou Phillips, Peggy Pope, David Wolos-Fonteno, Sebastian Sozzi, Mike S. Ryan – Genere: Drammatico, Commedia, colore, 89 minuti – Produzione: USA, 2008 – Distribuzione: 20th Century Fox – Data di uscita: 13 maggio 2009.
Clark Gregg non è Palahniuk e il suo film “soffoca”! Non è facile comprendere il genio di Chuck Palahniuk, definirlo geniale, bizzarro, perverso, è solo un modo per tentare di arginare una narrativa piena e complessa, difficile da inquadrare, figuriamoci da trasformare in una pellicola a medio budget. Perché parliamoci chiaro, la misera realtà di provincia che racconta Palahniuk è un delirio low cost che trascina nel torbido figli e madri, uomini e sessuomani, pazienti e dottori.
Parlando di “Soffocare”, il film diretto dell’anonimo debuttante Clark Gregg era già in partenza un progetto arduo e, difatti, il risultato è stato deludente e a tratti irritante nella gestione delle riprese. Basato sull’omonimo romanzo cult di Palahniuk, “Soffocare” è lontano anni luce dalla complessa maestria di “Fight Club”, altro film preso dalle sue opere, che David Fincher era riuscito a plasmare in maniera meravigliosa. Arrivare a raccontare un romanzo esistenziale quanto delirante significa aver polso fermo e dirigere gli attori in modo puntiglioso; al regista non riesce nulla di tutto questo e ogni rimando al testo viene ridicolizzato da trovate narrative che farebbero invidia al Commissario Rex.
Victor Mancini è un disturbato che vive la sua vita deragliando in continuazione, va agli incontri per sessodipendenti con totale disincanto, lavora come figurante storico e, per pagare la retta dell’ospedale alla madre schizzata, finge di soffocare nei ristoranti. Ed è qui che casca l’asino, in questo punto su cui si basa l’intero concept del romanzo da cui non a caso prende il nome. Proprio qui manca il punto chiave del film, visto che lo script annulla tale momento catartico, la redenzione dell’animo nel salvataggio di una vita, il prezzo di una cospicua donazione alla “vittima” di turno, in cambio di un’eternità di benefici morali.
Se svilita così, la trama ne risente e nemmeno uno scapestrato Sam Rockwell in buona vena può risollevare le sorti di quest’opera cinematografica, neppure blaterando sull’amore dato e ricevuto (il suo verso la madre Anjelica Houston, o il suo verso la donna che ama) mezzo nudo nella toilette di un aereo. Battute grevi e situazioni al limite dell’assurdo perdono immediatamente peso e ferocia, diventando solo un pretesto per strappare una risata tra le occhiate di chi, invece, attorno a noi non ha compreso. Perché non ha letto il libro, perché il film è oggettivamente fatto male e non approfondisce i numeri temi toccati dall’autore, perché in un così breve lasso di tempo la materia grezza che si evince tra le righe rimane tale e quale: grezza e soffocante.
Simone Bracci