Oggi, durante la conferenza stampa su “Libere, disobbedienti, innamorate – In Between“, la regista Maysaloun Hamoud ha raccontato come si è approcciata alla realizzazione del film e delle difficoltà incontrate all’interno della società islamica.
Maysaloun Hamoud a Roma per il suo “Libere, disobbedienti, innamorate – In Between”
Primo di una trilogia che la regista vuole dedicare al prezzo che pagano le donne per la loro emancipazione, il film è uno spaccato di vita a Tel Aviv, tra voglia di emancipazione e ancoraggio ai valori tradizionali. Per la regista “ogni cosa ha il suo prezzo, per cui anche la solitudine è forse un passaggio necessario, ma momentaneo, verso l’emancipazione” di una donna del nostro tempo. Riguardo all’amore le piace “credere che quello corretto arriva solo se siamo sincere con noi stesse”.
Libere, disobbedienti, innamorate: una pellicola che invita le donne ad emanciparsi
“Libere, disobbedienti, innamorate – In Betweeen” è sicuramente “un invito alla donna ad essere emancipata, un invito rivolto non solo alle ragazze palestinesi, perché la società maschilista si può osservare in tutto il mondo”. Il film è nato “in maniera istintiva, dalla pancia, perché la vita del film fa parte” della sua vita “come donna palestinese”, è per lei “ importante parlare di questi tabù dei quali non si parla mai”. Ha raccontato delle reazioni suscitate dalla sua pellicola nella società palestinese, “non abituata a vedere genere diversi di cinema”, per cui molti spettatori sono rimasti confusi; “essendo un racconto realistico pensavano fosse un documentario che volesse attaccare la società, la religione, ma questo non è vero, chi lo ha attaccato non l’ha nemmeno visto”.
Ha poi parlato delle minacce della prima ora da parte di gruppi fondamentalisti e dei conseguenti timori, presto dissipati per l’interesse suscitato dalla pellicola, per i tanti “dibattiti e per i tanti articoli che ne sono scaturiti”, fatti che di per sé mostrano “il grande risultato” ottenuto dalla regista: far parlare di temi scomodi. “Quando ho deciso di fare questo film era chiaro che sarei stata attaccata, ma la mia decisione partiva da una convinzione profonda: se io credo in certi ideali, non posso discostarmene”.
La parola passa ad un’altra donna, Mouna Hawa
Una delle attrici protagoniste, Mouna Hawa, ha aggiunto che lei personalmente, come le altre due interpreti, ha “ricevuto molte lettere di sostegno”, perché “tanta gente è stata toccata, emozionata, tanti omosessuali che non possono esprimersi nella società si sono sentiti a casa nel film. La donna non è mai stata rappresentata così , è sempre stata mostrata dipendente dal marito o dal padre”.
La regista ci tiene a precisare che “tutte le persone che hanno partecipato al film lo hanno fatto a prescindere dalla religione”, perché per la sua generazione “è un elemento che non ha importanza”. Ha poi aggiunto che Tel Aviv non è quel posto di libertà che si vuole far credere: “Se vivi in armonia con le regole imposte va tutto bene, altrimenti la vita non è facile”.
Libere, disobbedienti, innamorate: uno sguardo alla quotidianità del singolo
Pienamente convinta che “per fare un cambiamento della società la donna deve avere una parte attiva in essa”, ha spiegato di come “il cinema palestinese generalmente parla della lotta, dell’occupazione, del conflitto palestinese-israeliano, proponendo personaggi stereotipati, vittime o eroi. Seppur in un contesto difficile, la vita continua e il cinema deve rispecchiare anche questo: i processi, i cambiamenti. È importante anche trattare l’individuo, non solo la nazione”.
È stato per lei importante aver mostrato “un ceto ampio della società, attraverso le famiglie di origine delle protagoniste, capire come si comportano con le figlie, che siano cristiani, musulmani o laici. Aver puntualizzato che i costumi sociali hanno il predominio sulla loro appartenenza religiosa”, e aver fatto crollare “lo stereotipo che i cristiani siano più aperti”.
Maria Grazia Bosu
29/03/2017