Ryan Murphy inizia a svelare le carte, in un episodio caotico e irregolare. Apocalypse fatica a decollare e si perde in snodi di dubbio gusto, ma l’operazione nostalgia del regista è solo iniziata.
American Horror Story: Apocalypse – Tutti contro tutti
Era stato l’arrivo del misterioso Langdon (Cody Fern) sul finale del primo episodio a squarciare la stasi dell’avamposto di Miss Venable. Inviato dalla Cooperazione (organo di resistenza e controllo) con il fine di scegliere chi tra i sopravvissuti fosse valevole di costruire un nuovo mondo dalle ceneri dello scenario post-apocalittico, il suo arrivo nel bunker coincide con l’apertura delle danze per la sopravvivenza. Un gioco serrato e spietato che ci ricorda ancora una volta quanto crudeli siano le leggi di natura. La battle royale nell’inverno nucleare di Apocalypse ha appena avuto inizio.
Nell’Outpost 3 si sgomita sin da subito per la salvezza. Langdon inizia il giro di esami con Gallant (Evan Peters): una semplice conversazione, ancora non chiari i valori e le caratteristiche dell’uomo ideale cercato per la rinascita della società. Così si sonda tra le pieghe più intime della psiche, si cercano segreti, macchie nere; Gallant confessa di odiare la propria nonna, mai stata capace di donargli affetto. Tra flashback striminziti e moventi flebili, l’odio monta: dopo screzi e congiure, battibecchi e inganni, il nipote, delirante e allucinato, uccide la donna.
Murphy incunea l’episodio sui temi della morte e dell’erotismo, ma nega l’opposizione e la distanza tra i due poli, ne sottolinea piuttosto la contiguità. L’eros è anche veicolo di morte, il grado zero. Il regista lo mostra facendo girare all’indietro la ruota della narrazione, riportando sulle scene quell’Uomo di Lattice che aveva infestato la prima stagione della serie. È con lui che Gallant avrà rapporti sessuali, rievocando le atmosfere degli amplessi luciferini di “AHS: Murder House”. I primi passi di riallineamento e congiunzione tra le due serie iniziano a profilarsi, tanto più palesi nella figura di Micheal Langdon stesso, mostrato in tenera età proprio sul finale di Murder House.
American Horror Story: Apocalypse – Corpi osceni in luogo privato
Il corpo, in tutte le sue deformità, mostruosità e desideri febbrili, è altro tema su cui si impernia la narrazione. Un topic che si palesa con forza già dai primi minuti dell’episodio, con l’apparizione di serpenti nella camera di Emily (Ash Santos), novella Eva della realtà post-apocalittica. Presi e cucinati per essere serviti in stufato, si rigenereranno nel bel mezzo della cena, scatenando l’orrore dei commensali.
Ogni regola sembra ormai essere violata; le leggi fisiche sopravvivono a malapena, rimpiazzate da nuove realtà. Il corpo passa dall’essere santuario a tempio in rovina: così suggerisce Murphy, indugiando sulla schiena malformata di Wilhelmina Venable (Sarah Paulson), vessata e martoriata dalle condizioni dell’inverno nucleare. La maschera cala una volta per tutte: sotto le vesti della donna di ferro, un fisico distrutto e annichilito.
Un corpo che può essere multiforme, sfaccettato, centro di brama e pulsioni erotiche portate al punto di non ritorno; appare tanto più chiaro dalle vicende dei due giovani dell’avamposto, Timothy (Kyle Allen) e Emily, cui viene negato ogni appagamento fisico a causa delle rigide regole di Miss Venable. Colti sul fatto, verranno trascinati via per essere giustiziati.
La conclusione naturale dell’opposizione dei due alla politica vittoriana dell’Outpost si inceppa sul più bello, schiudendo una nuova voragine narrativa: il ragazzo riesce ad aprire il fuoco contro Miriam Mead (Kathy Bates), collaboratrice fidata della direttrice. Gli ultimi minuti febbrili dell’episodio si chiudono sulla donna, ferita e dolorante, intenta a rivelare una natura non propriamente umana.
Il regista cerca di aprire più squarci all’interno della narrazione, a volte intessendo fili piuttosto deboli. È questo ciò che, finora, rende perplessi in Apocalypse: la politica dei più forni aperti, comoda da gestire ma artisticamente arida. Murphy fatica ancora a scollarsi di dosso la patina kitsch dello scorso episodio, anzi ne sembra compiaciuto; tenta di reindirizzare sui binari un episodio poco regolare e privo di grandi slanci emotivi. La carne al fuoco è tanta – troppa, forse -, ma i semi della narrazione sono stati appena gettati.
Simone Stirpe
24/09/2018