L’ottava stagione continua a scivolare via, in maniera compatta e inusualmente lineare. “American Horror Story: Apocalypse” procede senza intoppi e convince, pur rimanendo frutto di un’operazione prudente e astuta.
American Horror Story: Cambio al vertice
Il capovolgimento era stato annunciato e temuto: il progressivo deperimento fisico di Cordelia Foxx apre la strada a un violento cambio al vertice. Svenuta alla fine del quarto episodio, la Suprema deve affrontare con chiara consapevolezza un indebolimento repentino e cronico, minaccia per la sopravvivenza della congrega stessa. Certo appare un fatto, nell’universo e ideato da Murphy: come l’energia non può essere distrutta – ma trasformata e trasferita, così il potere magico che stilla fuori dal corpo di Cordelia viene inglobato gradualmente da un corpo diverso, più giovane. Antefatto, questo, che spalanca molteplici diramazioni narrative, aprendo contemporaneamente più uscite: possibile il rovesciamento maschile tanto bramato dalla Hawthorne School, con Michael Langdon ormai prossimo effettivo Supremo; altrettanto possibile il consolidamento della guida femminile, con il ritorno del personaggio di Misty Day (Lily Rabe), morta brutalmente nella terza stagione – e ora riportata indietro dagli inferi da Langdon stesso.
Certo è lo scontro frontale che si preannuncia tra i due sessi, tra le due sfumature di intendere il potere magico. L’oscurità sembra stagliarsi all’orizzonte con l’effettivo consolidamento del potere di Michael Langdon, ormai apertamente lanciato verso un ribaltamento locale e una rivoluzione mondiale. I piani dell’uomo, deposito di energie demoniache latenti, sembrano essere intercettati dalla Suprema stessa (in sogno scorge un volto demoniaco con le fattezze di Langdon) e da altri stregoni della Hawthorne: fatto che apre a una stagione di sangue e eccidi.
A farne le spese è John Henry Moore (Cheyenne Jackson), stregone sin da subito ostile alle pulsioni luciferine di Langdon, e brutalmente arso nel cuore della notte da Mrs. Mead. In un colpocoda forse telefonato, Behold Chablis, (Billy Porter, già apprezzato in “Pose”, recente gioiellino targato Ryan Murphy) un altro degli alti dirigenti dell’istituto maschile, appoggia la causa di Cordelia Foxx e si offre come argine alla deriva oscura. L’uomo e Madison Montgomery si mettono in viaggio verso la Murder House, dimora che diede i natali a Langdon e lo protesse, avamposto infestato nel quale frugare alla ricerca di risposte. La congiunzione perfetta tra i tre capitoli della serie è ormai effettiva e calibrata.
American Horror Story: a capofitto verso la Murder House
Tutti i fili tessuti da Murphy nell’arco di cinque episodi dirigono verso un’unica, obbligata uscita: la Murder House. Chiusi i battenti alla fine della prima stagione, abbandonata alla propria dannazione eterna la popolazione che la infestava, Apocalypse si piazza sullo stipite della dimora, torna a bussare prepotentemente – non è casuale, a questo proposito, il ritorno nella serie di Constance Langdon (Jessica Lange), fissato per il prossimo episodio.
Cody Fern continua a reggere in modo sublime il personaggio di Michael Langdon, ormai perno e fulcro narrativo dell’intera stagione. Mai come prima avevamo assistito a un’anatomia così accurata e centrata del male, in ogni velata o lapalissiana sfumatura. “Apocalypse” quasi si prefigge di essere bildungsroman dell’anti-eroe luciferino – preso in fasce in “Murder House”, ragazzo volitivo e tormentato nel flashback degli ultimi episodi, tutto sembra ruotare attorno l’ascesa di un personaggio caustico e accattivante. Archiviati gli anni di formazione e superati i vuoti dell’infanzia, l’uomo sembra ormai pienamente conscio dei propri natali e del male ancestrale che sgorga nella sua persona: sottoposto da Cordelia Foxx alla Prova delle Sette Meraviglie, supera egregiamente persino il Descensum, la discesa eroica e mitica negli Inferi, destreggiandosi con facilità nel limbo luciferino.
Murphy procede in maniera sistematica nella costruzione di un ordito mai così accattivante da anni. Apocalypse funziona, avanza in maniera compatta verso l’attrito e lo scoppio. Tutto si incastra nella maniera giusta, certo, ma la patina nostalgica strutturale alla stagione rivela forse un prosciugamento creativo del regista, ormai proiettato su altri progetti del piccolo schermo. Ancora carente l’approfondimento e gli squarci necessari da aprire sulla psicologia di personaggi ancora nell’ombra, ma è pur giusto confidare nel crescendo di una prova alla regia mai così soddisfacente da tempo.
Simone Stirpe