Trama
- Regia: Tim Miller
- Cast: Ryan Reynolds, Morena Baccarin, Ed Skrein, T.J. Miller, Gina Carano, Brianna Hildebrand, Rachel Sheen, Andre Tricoteux, Jed Rees, Taylor Hickson, Leslie Uggams, Ben Wilkinson
- Genere: Azione, colore
- Durata: 107 minuti
- Produzione: USA, 2016
- Distribuzione: 20th Century Fox
- Data di uscita: 18 Febbraio 2016
“Deadpool”, della Marvel Comics, è ritenuto essere l’incarnazione dell’anti-eroe del Marvel Cinematic Universe; la trasposizione è ispirata al personaggio fumettistico nato dalla collaborazione di Fabian Nicieza (testi) e Rob Liefeld (disegni) .
Diretto da Tim Miller, direttore creativo già per un’altra produzione della Marvel “Thor: The Dark World”, “Deadpool” ha come protagonista l’attore Ryan Reynolds, che già ha vestito i panni del mercenario in una delle trasposizioni cinematografiche dedicate agli “X-Men”.
Deadpool: l’eroe per adulti più irriverente
Prima di diventare il ‘Mercenario Chiacchierone’, l’eroe più irriverente mai creato dalla Marvel, Deadpool si chiamava Wade Wilson. Wade era un soldato che ormai da anni era divenuto un mercenario, prima militante nelle Forze Speciali. La sua vita procedeva con normalità fino a quando gli venne comunicato di essere affetto da un tumore in fase terminale: Wade Wilson decide dunque di sottoporsi ad una cura sperimentale. Con essa non solo gli viene garantita la guarigione, ma anche la possibilità di acquisire delle abilità fuori dall’ordinario..
Dopo questa cura Wade, che ora assume l’identità di “Deadpool”, vede il suo volto sfigurato ma, al contempo, acquista l’abilità della rigenerazione, sfruttandola per vendicarsi dell’uomo che ha rovinato la sua vita.
Recensione
Deadpool – Recensione: la demolizione comica del cinecomic tradizionale
Tim Miller e Ryan Reynolds hanno fatto centro: questo “Deadpool” è una miscela esplosiva pop dal tono dissacrante, una pioggia torrenziale di citazioni, scene da farsa grottesca ed esagerazioni di ogni tipo, sempre ammiccanti, in via parodistica, al trash più esasperante e demenziale.
Lo spirito del fumetto si reincarna nella versione cinematografica, senza smarrire quegli aspetti peculiari che lo hanno reso un caso a sé nell’universo immaginario della Marvel, da quando Fabian Nicieza e Rob Liefeld (rispettivamente ai testi e ai disegni) lo introdussero in una vignetta della testata “New Mutants”, nel 1991: lo sfondamento della quarta parete, in primis, con il protagonista che si rivolge direttamente allo spettatore, lo guida per mano nella trama avvolgente dei propri deliri e parla, parla, parla in continuazione, senza in realtà dire nulla, eppure esprimendo in questa sovversione linguistica tutta la propria carica satirica; un costante eccesso logorroico che conduce, paradossalmente, alla desacralizzazione antiretorica del genere supereroistico.
La comicità di “Deadpool” è superficiale, grezza, infarcita di turpiloquio e di allusioni sessuali di ogni tipo e di ogni genere, ed è proprio questa sua debordante aggressività il punto di oscillazione fondamentale: può tradursi in pagliacciata sciatta e priva di mordente (come spesso è accaduto nella serialità della versione fumettistica), oppure può assumere i connotati anarchici di una commedia chiassosa e violentemente decostruzionista rispetto agli standard di genere, esattamente ciò che prende forma – per fortuna – nel film di Tim Miller.
Deadpool: fiumi di parole e ultra-citazionismo pop
Fortemente voluto da Ryan Reynolds, che ha insistito tanti anni affinché si facesse questo esperimento, “Deadpool” esce al momento giusto, scuotendo e destabilizzando il filone stantio e ridondante dei film di supereroi proprio nel momento in cui si prepara l’invasione stagionale, date le più o meno imminenti uscite del nuovo “Captain America: Civil War” e di “Batman v Superman: Dawn of Justice“.
A questo proposito, è interessante notare come il film vada prepotentemente a inserirsi in un sottobosco già significativo di alternative interne allo stesso genere: il riferimento primario è alle serie Netflix, “Daredevil” e “Jessica Jones”, la cui valida rielaborazione procede attraverso una scrittura intelligente e la commistione con il thriller e il noir. Nelle sale italiane, invece, sarà tutta da gustare la coabitazione con “Lo chiamavano Jeeg Robot”, altra versione peculiare e creativamente dissacrante rispetto al formato cinecomic tradizionale.
La trama, in sé, è ovviamente banale, inchiodata in una struttura convenzionale messa lì apposta per essere continuamente derisa e demistificata – sebbene non manchino un paio di scene ‘serie’, dal piglio drammatico effettivamente un po’ straniante rispetto al corso della narrazione. La vicenda, divisa in diverse linee temporali per aumentare il ritmo e per dare sfogo ad alcune trovate comiche, si poggia su tre movimenti: la storia d’amore tra Wade Wilson (il futuro Deadpool, ovvero Ryan Reynolds) e Vanessa (la bella Morena Baccarin); il cancro contratto dal protagonista, che per curarsi si sottopone alle torture di un instabile e sadico inglese (Ed Skrein), acquisendo un fattore rigenerante ma ritrovandosi con piaghe insanabili per tutto il corpo; il percorso di vendetta intrapreso nei confronti del villain, alla riconquista dell’amore perduto.
Messa da parte la scarna sostanza narrativa, il film si regge tutto sul rumore, sulle parole riversate senza soluzione di continuità e in modo più o meno casuale dall’inizio alla fine, sulle trovate comiche che non risparmiano le scene d’azione più spericolate (alcune davvero notevoli).
Anche l’inserimento di due X-Men come Colosso e Testata Mutante Negasonica è puramente ornamentale, personificazione di quel tipo di cinema che qui ci si propone al tempo stesso di omaggiare e demolire: i due personaggi vengono scritti e interpretati in modo che possano stare al gioco, rafforzando la verve della commedia e sacrificandosi sull’altare della turbolenta irriverenza. Un esperimento riuscito, in grado di sfondare il muro dell’autoreferenzialità per liberare tutta la propria carica burlesca e ipertestuale.
Marco Donati
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