“Dear White People” Stagione 1: complicate convivenze tra umani di diverso colore
Un titolo sottilmente d’impatto come questo necessita subito di una didascalia:Dear White People non parla direttamente di bianchi intolleranti e hater, visto che quando uscì ormai quasi quattro anni orsono, fu accusato di razzismo di ritorno da una serie di polemiche sui social che non avevano ragion d’essere.
Il “Dear White People” nell’immaginaria prestigiosa università americana “Winchester University”, si seguono le vicende di un gruppo di studenti afroamericani alle prese con la loro vita da college, ma soprattutto con gli effetti a tutto tondo della diversità di colore della pelle, tematica primaria nel discorso politico e sociale americano.
La serie di Netflix si ispira all’omonimo film del 2014 anch’esso diretto da Justin Simien.
Diciamo subito che la serie funziona infinitamente meglio su quasi tutti i livelli rispetto al suo predecessore, e lo fa proprio perché si svolge in 10 episodi e non deve concentrare succosi contenuti in un lasso temporale troppo ristretto. Avendo avuto a disposizione molto tempo per rielaborare le relazioni e il vissuto di ciascuno dei suoi protagonisti principali e il coro delle loro sottotrame, Simien e i suoi collaboratori (il regista di “Moonlight” Barry Jenkins e lo scrittore di “Funny or Die” Leann Bowen) sono in grado di costruire molto sul tema delle tensioni razziali del campus, con decisamente molta più stratificazione.
Ragazzi del College
“Dear White People” ha un ritmo rapido e sciolto che la rende facilmente usufruibile e divertente. Tutti i primi cinque episodi ripresentano un personaggio presente nel film, tutti afroamericani: Samantha “Sam” White, interpretata dalla decisa Logan Browning, protagonista e conduttrice del programma radiofonico di attivismo antirazzista del campus che condivide il nome con la serie stessa (Sam ha però una madre nera e un padre bianco, altra caratteristica “non conforme” che produce una interessante sotto-trama); il fusto Troy Fairbanks (Brandon P. Bell, che riprende il suo ruolo), figlio educato ma spesso sbruffone del rettore; l’outsider Lionel (DeRon Horton), uno scrittore del giornale della scuola che rimugina sulla sua omosessualità e il suo collocamento nella comunità nera del campus; Coco (Antoinette Robertson), ambiziosa ma insicura, impegnata intimamente nella ricerca di un posto in società accanto a un uomo di alto livello; Reggie (Marque Richardson, che riprende il suo ruolo del film), compagno di Sam nell’attivismo radicale che affronta un’esperienza straziante che spinge in avanti la narrazione. Accanto ad essi, non hanno un loro episodio di definizione ma sono molto presenti Joelle (Ashley Blaine Featherson), la simpatica compagna di stanza di Sam, e infine Gabe (John Patrick Amedori), lo studente bianco con cui Sam condivide una bella cotta.
Il colore della pelle
La miccia innescante della trama di questa prima stagione, riguardante il tema del razzismo e della segregazione, è una festa di Halloween presso una confraternita di bianchi in cui i partecipanti sono invitati a mascherarsi con la famigerata Blackface: la bruttissima usanza dei bianchi di dipingersi di nero il viso, malintenzionato simbolo di appartenenza e autoelogio, eredità di tempi molto più duri.
Questa festa è la vetta della piramide di eventi concatenati che dipingono l’articolato ma anche facilmente fruibile complesso di caratteri, aspettative, tematiche, malignità e buone azioni, ben progettato e a volte molto sconcertante.
Con un’acutezza che al film sembrava mancare, anche nei 30 minuti di ogni episodio non ci si risparmia nel descrivere bene cosa è il razzismo basato sul colore della pelle, l’odiosa feticizzazione sessuale delle persone di colore, la spaventosa brutalità dei poliziotti prevenuti contro i neri, la dolorosa scivolosità del rapporto con i sostenitori bianchi, persino anche i meccanismi interni del settore universitario d’élite e i suoi rapporti con la politica americana. E dopo questo si torna ad una sana leggerezza da ragazzi, mentre si vedono i momenti d’amicizia tra Sam e Joelle o quando i compagni si burlano di Reggie per le sue non dichiarate tendenze fondamentaliste black power.
Stereotipi inaspettati in “Black White People”
Naturalmente, non tutto va bene, in “Black White People”. Un personaggio secondario, un ragazzo di provenienza africana che è venuto a studiare a Winchester, sembra fatto apposta per essere preso in giro in maniera stereotipata dagli afroamericani, senza che venga presentata la sua nazionalità vera e propria, un esempio di intolleranza all’interno di una comunità verso un sottogruppo che francamente non ci si sarebbe davvero aspettati e che stona tantissimo.
Sono presenti, in non pochi momenti, stereotipizzazioni che purtroppo fanno capire che della accondiscendenza “bianca” ha influito sulla scrittura di “Black White People”, per avere evidentemente un successo un po’ più incisivo sul grande mercato di Netflix: ad esempio una rappresentazione forse forzata del rap afro che in alcuni momenti si poteva benissimo evitare.
A parte però queste pecche, la serie ha le carte in regola per essere oggetto di binge-watching: è utile per documentarsi con divertimento riguardo il tema del razzismo in America, sia per cultura personale ma anche per avere un quadro sociologico di quanto può accadere anche in Italia. In questo spettacolo si cerca in 30 minuti, oltre a fare del sano entertainment, di spiegare cosa si prova ad essere oggetto di disuguaglianza, in tutte le forme con cui essa può presentarsi, e che ogni europeo può produrre, come anche subire, come ogni essere umano.
Massimo Ricci