Recensione
Foxtrot – Recensione: una partita contro il destino
“Foxtrot” apre le danze in una mattina apparentemente normale, quando la quiete di una casa e della coppia che ci vive viene sconvolta da qualcuno che bussa alla loro porta; due uomini sono venuti a portare a Dafna e Michael la peggiore delle notizie che due genitori potrebbero mai ricevere: il loro amato figlio, il loro Jonathan, è morto. Caduto mentre svolgeva il suo dovere: così i militari, latori del terribile messaggio, continuano a ripetere. La madre sviene e viene sedata, mentre Michael si ritrova da solo a dover affrontare il dolore della perdita in una casa silenziosa e vuota, uno spazio divenuto opprimente e che non lo fa più respirare. Ma è solo l’inizio della tragedia in tre atti, scritta e diretta dal regista israeliano Samuel Maoz: le cose possono non essere come appaiono e a volte il futuro ci riserva un epilogo più amaro di quel che ci si sarebbe aspettato. I protagonisti Michael e Jonathan, padre e figlio, distanti eppure legati, iniziano una danza con il destino: anzi, per la precisione, si lanciano in un drammatico foxtrot, un ballo che viene più volte menzionato nel corso del film e che, come ci viene raccontato, ha una peculiarità: ti riporta sempre al punto di partenza.
Foxtrot: un ballo in tre atti
La narrazione di “Foxtrot” si sviluppa, come già detto, in tre atti: il primo si concentra principalmente sulla figura di Michael, interpretato da Lior Ashkenazi, che con lunghi silenzi e sguardi vuoti alternati ad accessi di rabbia, aiutato da una macchina da presa che sembra farsi quasi opprimente, come il dolore che grava sulla scena, riesce a comunicare un senso di vuoto e di vertigine, come se la terra si sbriciolasse sotto i piedi, raccontando in modo intimo, senza il bisogno di troppe parole, lo strazio di un padre che perde il proprio figlio.
Nel secondo atto, invece, “Foxtrot” prende una piega più narrativa: ci racconta la vita di Jonathan e dei suoi compagni nel loro posto di guardia militare, ci parla di ragazzi straniati dalle azioni meccaniche e ripetitive cui si sono ridotte le loro vite, intrappolati in un luogo deserto, a ballare anche loro un foxtrot (sia metaforico che reale), in un limbo fastidioso e pesante spezzato dal passaggio di poche auto e qualche cammello; quasi viene da domandarsi per quale ragione l’esercito israeliano li abbia spediti in quella desolazione. L’unica cosa che potrebbe strapparli a questa routine in cui il tempo sembra dilatarsi è qualcosa in cui non dovrebbero sperare, ossia il verificarsi di una minaccia che li spinga a dover agire e scuotersi di dosso il fango in cui sembra stiano affondando.
Infine il terzo atto ci riporta al punto di partenza: da Michael, in una situazione per certi versi differente eppure tragicamente identica a quella iniziale. Si è compiuto l’ultimo passo laterale della danza di “Foxtrot”.
“Foxtrot”, un film in equilibrio sul filo del rasoio
Intrappolato nelle sabbie mobili di un destino ineluttabile, “Foxtrot” potrebbe correre il rischio di risultare un film pesante, difficile da seguire e da digerire, che opprime lo spettatore; fortunatamente, però, una sceneggiatura capace riesce a evitare con grazia il problema, poichè il dramma è disseminato di piccoli appigli cui ci si può aggrappare per riuscire a rimanere a galla: innanzi tutto, Samuel Maoz non scopre da subito tutte le sue carte, e ci sono cose non dette ma che aleggiano sulla storia per tutta la sua durata, e che si rivelano al 113esimo minuto di “Foxtrot”, così da catturare e mantenere l’attenzione di chi guarda fino alla fine; inoltre, a interrompere il gravoso immobilismo in cui è impantanato il racconto, intervengono momenti di inaspettata leggerezza, che quasi strappano un sorriso: basta una parola detta da Michael, un racconto di gioventù o un foxtrot ballato con un fucile in mezzo al deserto, mentre una musica immaginaria risuona nell’aria a sciogliere temporaneamente la narrazione. Ma il sorriso è solo passeggero, perchè il destino beffardo aspetta solo di fare la sua ultima, tragica mossa.
Giada Aversa
Trama
- Regia: Samuel Maoz
- Cast: Lior Ashkenazi, Sarah Adler, Dekel Adin, Yehuda Almagor, Shaul Amir, Gefen Barkai, Ran Buxenbaum, Rami Buzaglo, Aryeh Cherner
- Genere: Drammatico, colore
- Durata: 113 minuti
- Produzione: Israele, Germania, Francia, 2017
- Distribuzione: Academy Two
- Data di uscita: 22 marzo 2018
Dafna e Michael aprono la porta e, trovando tre soldati, capiscono che il loro figlio Jonathan non tornerà più a casa. Inizia in questo modo “Foxtrot”, anticipando il tema prevalente della pellicola: la morte, una morte assurda che non può essere spiegata. Così come i soldati che vivono al confine non riescono a spiegare il proprio destino, ma si trovano solo costretti a dormire in un container che rischia di sotterrare nel fango. Il film racconta il dolore dai suoi mille punti di vista differenti.
Foxtrot: Samuel Maoz racconta Israele
Samuel Maoz torna sul grande schermo con una storia cruda e difficile. Dopo l’incredibile successo di “Lebanon” che vinse il Leone d’oro al Miglior film nel 2009 al Festival del Cinema di Venezia, il regista decide di raccontare un’altra volta la difficile realtà di Israele. Forse proprio a causa della sua diretta esperienza nell’invasione del Libano, Maoz sembra non riuscire a fare a meno di rendere evidente l’assurdità dei conflitti agli spettatori.
Lo fa in un modo piuttosto peculiare. In “Foxtrot”, diviso in tre parti come una classica tragedia greca, si passa dal profondo dolore causato dalla perdita di un figlio ai balli al confine, dove talvolta i ragazzi sembrano davvero spensierati, cercano in qualche modo di dare un senso alla propria esistenza, nonostante non sappiano il motivo per cui impugnano una mitragliatrice.
“Foxtrot” ha vinto il Leone d’argento, Gran Premio della giuria, alla 74°edizione del Festival del Cinema di Venezia; inoltre, è stato tra i film in corsa per giocarsi la nomination al Miglior film in lingua straniera agli Oscar 2018.
Trailer
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