Matteo Rovere, Alessandro Borghi e Alessio Lapice hanno presenziato, assieme ai due sceneggiatori Francesca Manieri e Filippo Gravino e ai produttori, alla presentazione per la stampa del film “Il Primo Re”, distribuito in oltre 300 copie nelle sale italiane a partire dal 31 gennaio.
Il Primo Re: un colossal italiano
Questo film, unico in Italia del suo genere, è nato dall’esigenza del regista Matteo Rovere e del produttore Andrea Paris di raccontare una storia italiana, come quella della fondazione di Roma, in un modo inusuale per l’industria cinematografica italiana degli ultimi anni. In passato, ha ricordato il regista, in Italia si frequentava molto di più questo genere, che in tempi recenti è stato completamente abbandonato. Nonostante i nove milioni di euro necessari per la realizzazione di questo film provengano in gran parte da finanziatori internazionali, l’anima della pellicola, il cast artistico e le maestranze che l’hanno realizzato, è composto da artisti e tecnici orgogliosamente italiani.
C’è voglia di rinnovamento, e questo film ha voluto essere una risposta al desiderio dell’industria di affrancarsi da generi stantii, per poter spaziare anche in territori diversi.
Il Primo Re: interpretare personaggi vissuti nell’ottavo secolo avanti cristo
Il film è interamente recitato in latino arcaico, ricostruito attraverso fonti contemporanee al periodo storico grazie al lavoro di un gruppo di semiologi dell’Università La Sapienza di Roma. Gli attori hanno dovuto studiare le battute in latino, utilizzando delle registrazioni audio per assimilarne la pronuncia. Alessandro Borghi ha raccontato di aver passato molto tempo correndo in spiaggia, mentre ascoltava i dialoghi in latino in cuffia al posto della musica.
Anche Alessio Lapice ha raccontato di aver passato i suoi momenti difficili: dopo aver impiegato un intero mese a studiare un lungo monologo, a una settimana dalle riprese, ha ricevuto dal regista il testo completamente riscritto. Ha raccontato di essersi preoccupato molto in prima battuta, ma che l’assoluta tranquillità di Matteo Rovere lo ha poi contagiato, e alla fine l’impresa è stata molto meno drammatica di quanto inizialmente aveva temuto.
I due attori hanno anche dovuto lavorare moltissimo sul non-verbale dei personaggi, essendo il rapporto tra i protagonisti composto, per la maggior parte, di silenzi e di sguardi. Hanno dovuto affrontare uno studio antropologico su posture e movimenti. Si sono ritrovati a chiedersi: a quell’epoca le persone annuivano con la testa per dare risposte affermative come facciamo noi oggi, o quel gesto aveva per loro tutt’altro significato? Hanno perciò dovuto lavorare annullando la gestualità tipica moderna, per spingere i loro corpi a comunicare in maniera più essenziale, con il solo sguardo.
La lingua, hanno detto infine, li ha aiutati a calarsi meglio in un mondo “altro”, nella dimensione del “mito” che, in quanto tale, è immaginario e lontano da tutto ciò che risulta scontato e quotidiano.
Il Primo Re: archetipo e mito
Gli sceneggiatori hanno dovuto lavorare su un testo composto per la maggior parte da “silenzio che urla”. I personaggi lottano per la sopravvivenza, affamati, fuggendo tra i boschi, perciò non parlano molto. Francesca Manieri ci ha spiegato come abbia dovuto scarnificare il linguaggio usato in sceneggiatura, impiegando poche parole per far passare contenuti enormi, temi universali ed importanti. La lingua latina adottata era perfetta perché ha un suono “ruvido”, proprio come la storia raccontata.
Il principale tema che è stato esplorato è quello del rapporto con il dio pagano che i protagonisti pregano. Un rapporto molto più profondo e complesso rispetto a quello della società contemporanea. Il loro dio era inconoscibile, misterioso, a tratti minaccioso e crudele. I personaggi ne danno una lettura fortemente emotiva e personale. Il loro rapporto con dio è il rapporto con un grande interrogativo, con un mistero indecifrabile. E ad interessare gli autori erano le domande molto più delle risposte.
Filippo Gravino ha aggiunto che il cuore del racconto è nella relazione tra i due fratelli. Il processo degenerativo di Remo, che porterà allo scontro finale, è stato particolarmente interessante da sviscerare in quanto, al contrario di quanto accade normalmente, il personaggio di Remo non si ritrova alle prese con i propri demoni interiori, ma con un demone esterno e ben delineato: lo stesso dio che entrambi pregano e temono.
Il Primo Re: difficoltà sul set
Il film è stato una vera e propria sfida produttiva, essendo interamente girato in esterni. Nell’industria cinematografica moderna non si è abituati a lavorare così. Di solito i cineasti affrontano sfide tecniche girando nei set al chiuso, mentre in questo caso, la sfida era la natura.
Il freddo, il fango, le condizioni meteo avverse, tutta la fatica che si vede riflessa nei volti dei personaggi è reale. Il freddo faceva tremare loro le mani. Borghi e Lapice, nella prima scena, hanno dovuto correre scalzi nel bosco, col rischio di ferirsi le piante dei piedi (cosa che poi non è accaduta).
Borghi ha ricordato di aver vissuto il momento della sveglia, alle cinque e dieci del mattino, come un incubo al pensiero di scoprire che quel giorno, magari, avrebbe piovuto. E girare tutto il giorno a torso nudo nel bosco, coperto di fango, sotto la pioggia, davvero non sarebbe stato piacevole. Fortunatamente il tempo ha benedetto la produzione con lunghe giornate assolate, al punto che la pioggia che si vede nel film è quasi sempre artificiale.
È stata necessaria una fatica estrema per realizzare questo film, ma i risultati su schermo sono evidenti.
Nicola De Santis
24/01/2019