L’horror, nel corso della sua storia, è stato capace di risignificare tutti gli ambienti immaginati dall’uomo – dai mari pieni di squali allo spazio con i suoi alieni, dal terrore della città, a tratti angosciantemente vuota a tratti semplicemente infernale, alla campagna (isolata, desolata, infestata…).
Gli spazi periferici dell’horror
Eppure ci sono alcune dimensioni, molto periferiche, che in virtù precipuamente di questa loro posizione marginale (ai bordi della vita urbana, ai bordi della cognizione, ai bordi delle attività umane) hanno assunto una valenza simbolica particolarmente potente: quella di canali carsici di comunicazione con un mondo ulteriore. Ci sono delle matrici simili attraverso tutta la storia del genere: dai cimiteri indiani di kinghiana memoria, alle rocce australiane di cui Peter Weir ci parla in “Picnic a Hanging Rock” (1975) – luoghi che eccedono il proprio spazio, significano più della loro estensione, strabicamente ci proiettano in una sorta di “effetto Vertigo” esistenziale, metafisico, e diventano, in sostanza, dei portali.
La distinzione di spazio e tempo si fa sfumata, e lascia spazio a una realtà più confusa. Un esempio lampante di come questo sia possibile è esplicitato da Benson & Moorhead, nel loro recente “The Endless” (2017): l’esperienza umana, esperienza estrema di superamento dei limiti della nostra mente, si fa geografia nei confini di un culto da cui due fratelli scappano per poi tornare, in una circolarità che sembra lasciarli, solo per poi riprenderli.
Un habitat che, forse, proprio in virtù del suo statuto ambiguo tra la terra e l’acqua, ha da sempre catturato l’attenzione di chi si è voluto cimentare con temi simili è il lago. Vedremo, in particolare, come questo abbia segnato, formato, e a sua volta ispirato l’horror degli ultimi anni.
L’esempio di “Lake Mungo”
Con “Lake Mungo” (Joel Anderson, 2008), capolavoro recente del cinema australiano, la strada era tracciata. Il lago, nel mockumentary di Anderson, diventa molto più di una sorgente d’inquietudine. L’esperienza di Alice(/Laura) Palmer è segnata dalla caduta in quel tessuto membranoso, lunare, secco, del vecchio lago Mungo, dove, in ultima istanza, la ragazza trova la peggiore delle sue paure: se stessa.
Il doppelgänger non è, qui, una speranza di salvezza, un appiglio al salvagente, come in altri film coevi (reduci dall’esperienza scorporante degli anni Zero, fatta di svuotamenti, immagini seppiate, ampi spazi e tempi di narrazione mediamente meno concitati di quelli ai quali siamo abituati ora; si pensi, ad esempio, allo splendido “Another Earth”, di Mike Cahill, 2011). E non è neppure l’immagine svolta del “lato oscuro di noi stessi”. No: è piuttosto un’impossibilità logica, un’aberrazione che pone il singolo di fronte all’infinito, e terrorizza per via, semplicemente, della propria natura. Così il lago si fa buco nero nella maglia del “senso”, e la distrugge.
I laghi e i loop temporali
L’idea che il lago sia uno spazio dove “il tempo” si fonde con la geografia, conducendo a esiti estremi (ribaltamenti e ritorni, vite spezzate, anticipate, prolungate, replicate) è un topos ben presente nel cinema horror contemporaneo.
Si consideri, in scala minore, che il lago è il centro della “finta morte” di Will Byers in “Stranger Things” (2016-in corso), e quindi anche della sua “rinascita”.
In scala maggiore, “Lake Artifact” (Bruce Wemple, 2018) è forse il paradigma di questa rappresentazione. Gli amici riuniti nella fatidica casipola ai bordi del lago finiscono in una rete di spazi e tempi che non sanno, e non possono, governare: uno di loro invecchia improvvisamente, o forse semplicemente trova la versione anziana di se stesso, da tempo immemore intrappolata nella rete del luogo.
I secondi scorrono a velocità differenziate per ogni singolo individuo, ai bordi di Lake Artifact, ed è forse questo l’elemento chiave del luogo: sdoppiamento e isolamento, a ciascuno un proprio tempo, e a ciascuno innumerevoli versioni di sé. Versioni destinate a massacrarsi, se vogliono uscire dal confine angusto che il lago offre loro.
Un discorso analogo vale, seppure secondo una linea narrativa molto più limpida, per “The Lake on Clinton Road” (DeShon Hardy, 2015), un horror a “demoni multipli” (sulla falsariga de “La Casa”, di Sam Raimi, 1981) dove però il mezzo della possessione è dato appunto dal contatto con l’acqua del lago. Lunghi silenzi, “montaggi sbagliati”, scene chiaramente accelerate: anche da un punto di vista formale, l’idea chiave è che, nei pressi del lago, gli eventi succedano oltre un certo gradino di normalità – non solo per chi li vive, ma anche per chi li guarda al cinema.
Lo smarrimento del senso
Ovviamente, il lago può essere lo sfondo di molta violenza, oltre che di paradossi. Si pensi agli slasher di “Lake Alice” (Ben Milliken, 2018) o del celebrato “Eden Lake” (James Watkins, 2008). Ma, a volte, le due dimensioni si mescolano, restituendo un quadro confuso ma potente, come quello della serie di Z-movies con a capo “Lake Fear” (alias “Cypress Creek”, Michael Crum, 2014). In quello che sembra una versione estesa del cortometraggio di “The Ring” (Gore Verbinski, 2002), Crum ci propone il quadro di un mondo che, semplicemente, perde ogni legante logico nel momento in cui i giovani protagonisti superano, immergendovisi, il lago del titolo. C’è violenza, orrore, ma soprattutto un senso profondo di smarrimento che accompagna la visione di questa piccola opera, dove la trama lascia presto spazio all’analogia.
Nuove lineenell’horror?
In sé, quella appena descritta è una presenza marginale ma costante nel cinema horror. La domanda che abbiamo da porci ora è: quanto può essere “alla moda” una rappresentazione dove la storia cede all’immagine, dove il senso vaca, e in ultima istanza lo scopo è mettere lo spettatore di fronte a se stesso e, in virtù di ciò, inquietarlo? Non possiamo saperlo sin d’ora, alle soglie degli anni Venti. Ma restiamo in trepidante attesa di sapere come, e se, questo piccolo “sottogenere” saprà adattarsi ai nuovi tempi.
Lorenzo Maselli
01/03/2021