Il 2011 ha segnato l’inizio di due capitoli fondamentali della storia recente del cinema horror. Da un lato, in minore, ha visto la nascita di una delle più fortunate saghe degli ultimi anni; dall’altro, in maggiore, e proprio attraverso quella saga, ha inaugurato un nuovo decennio fatto di riscoperta, valorizzazione, “elevazione” del genere verso una maturità che pareva dimenticata. Erano passati ormai da parecchio i tempi in cui all’horror si legavano i nomi di Donald Pleasence, Max von Sydow e Gregory Peck, quando finalmente, alle soglie degli anni Dieci, un improbabile paladino della “casa infestata”, James Wan, prese le redini del grande progetto di Jason Blum, restituendoci quel piccolo capolavoro del terrore che è “Insidious”.
La vicenda, in soldoni
Elise (Lin Shaye) è una medium capace di interagire con un piano di realtà ulteriore, l’Altrove (“The Further”), dove le anime dei morti restano come in un limbo. Non è certo l’unica, anzi, molte altre persone sembrano dotate di quella capacità che lei definisce “proiezione astrale”, che permette di viaggiare attraverso quella grande distesa di vuoto abbandonando temporaneamente il proprio corpo.
Il problema fondamentale di questa abilità, però, risiede proprio in quello che avviene al corpo del “viaggiatore” vacato dallo spirito: involucro sventrato, le spoglie attraggono da un lato le anime in pena dell’Altrove, che desiderano sopra ogni altra cosa tornare in vita, e dall’altro… qualcosa di ben peggiore. Presenze attivamente dedite al male, mai meglio definite, capaci di tutto quello che il repertorio orrorifico del cinema concede a un fantasma e a un demone insieme.
Da questo la missione di Elisa: salvare i corpi rimasti “infestati” da questi mostri. Attraverso flashback e anticipazioni, i quattro film di “Insidious” (“Insidious”, 2010; “Oltre i confini del male – Insidious 2”, 2013; “Insidious 3 – L’inizio”, 2015; “Insidious – L’ultima chiave”, 2018; aspettiamo il quinto capitolo…) percorrono le sue vicende e quelle di coloro che le si rivolgono, con un uso sapiente degli effetti speciali e uno ancora più avveduto del fuori campo.
Una storia per adulti
Il sottotitolo del primo film della saga è molto chiaro in proposito: non è la casa a essere infestata, ma la persona. James Wan, reduce dall’esperienza “singolare” della saga di “Saw”, arrivò al 2011 volendo assolutamente evitare di essere relegato nel piccolo cortile dei registi di gore, e così facendo riuscì forse a intercettare quel canale carsico fatto di esorcismi e possessioni che dagli anni Novanta, complice anche un nuovo modo di intendere il jump scare ereditato dai colleghi del Sol Levante, si era ricavato una strada attraverso i seppiati anni Zero, fatti perlopiù di sangue, corpi smembrati, remake senza troppa anima e ostelli pieni di motoseghe.
Fu in questo senz’altro aiutato da quell’old-fashioned impresario che è Mr. Blum, padre della casa produttrice Blumhouse, campione del cinema “indipendente organizzato”, a basso budget ma con struttura solida e spirito fortemente anti-hollywoodiano.
Così, dopo anni in cui l’horror sembrava perlopiù destinato a restare una scatolina illusionistica per intrattenere i liceali il venerdì sera, “Insidious” raggiunse finalmente i cinema (dopo aver esordito al TIFF già nel 2010). Un film dai finanziamenti contenuti ma dagli effetti solidi, benedetto da una direzione della fotografia straordinaria (John R. Leonetti e David M. Brewer) che lascia spazio e modo di avvedersi del pregio di ciascuna immagine, in uno scenario a cavallo tra Amityville e Georgetown, delicatamente al di fuori del tempo – quanto basta, perlomeno, perché ogni oggetto diventi un simbolo di qualcosa, perché ogni intromissione della modernità porti con sé il timbro di un’epifania potente (e in questo “sesto” senso è anche raccolta l’eredità di M. Night Shyamalan).
Il tutto, sia chiaro, al servizio di un’immagine ancora più forte, e ancora più svincolata dalle contingenze del presente: quella della persecuzione, del fantasma, che anziché infestare un posto infesta un bambino. Così i traumi della vita di ciascuno di noi, spettri fin troppo materiali di un amore che spesso diventa violenza; e così i fantasmi che Elise cerca, caccia, sconfigge, conosce, fino a dover affrontare anche i suoi propri. Una storia per adulti, con problemi della vita adulta, e un’eroina settantenne tutt’altro che convenzionale, con un rapporto quasi materno verso le persone che aiuta e verso i propri colleghi. La gentilezza, la delicatezza, il miracolo di un tocco affettuoso assumono attraverso la saga di “Insidious” la valenza sorprendente di fessure in una maglia fatta di dolore e violenza.
Il capostipite di una lunga serie?
È difficile sovrastimare l’impatto di “Insidious” e dell’operazione culturale della Blumhouse sul panorama horror contemporaneo. Attraverso tre registi (James Wan, Leigh Whannell e Adam Robitel; si parla di Patrick Wilson per il quinto capitolo), una produzione che impressiona e al contempo emoziona per la lungimiranza che dimostra (oltre a Blum e Wan, basti pensare al contributo di Oren Peli), e una recitazione impeccabile (Lin Shaye, Patrick Wilson, ma anche lo stesso Whannell, Rose Byrne, il brillante Ty Simpkins), “Insidious” ha saputo finalmente ribadire la complessità di un genere che può essere splendido, commovente, spaventoso, abbagliante, proprio come Méliès ci insegna debba essere il cinema.
È da “Insidious” che, per molti versi, possiamo far iniziare quella progressiva rivalutazione dell’horror che ne ha fatto, negli ultimi anni Dieci, una delle voci più dinamiche del cinema d’arte. Ed è grazie a “Insidious” che una nuova sensibilità si è imposta: non più l’horror come smembramento postmoderno, svago allo sbaraglio dopo le catastrofi di inizio millennio, ma presenza autorevole, e magnifica, nelle sale del XXI secolo. E non c’è momento migliore per celebrarlo che oggi, nel 2020, celebrando il decimo anniversario di quel TIFF che segnò, profondamente, la storia del cinema contemporaneo.
Lorenzo Maselli
10/12/2020