Jack Lemmon del laureato ad Harvard possedeva lo stile senza averne l’arroganza; si è detto spesso che il grandissimo successo di pubblico sia stato dovuto al fatto che nei suoi personaggi ogni americano poteva riconoscersi, nell’immaginario collettivo rappresentava ‘l’uomo qualunque’: non lo era affatto.
Jack Lemmon, il gentleman di Hollywood
(Newton, 8 febbraio 1925 – Los Angeles, 27 giugno 2001)
È vero che Jack Lemmon incarnava quello che ogni americano avrebbe voluto essere; non era uno dei bellissimi di Hollywood e questo certamente ha favorito la percezione di prossimità del cittadino medio; viceversa la compostezza, la signorilità, la mimica eccezionale lo rendevano irraggiungibile così da far desiderare a ogni spettatore di assomigliargli.
“Jack Lemmon in”, la lapide nel Westwood Memorial Park Cemetery scarnamente descrive una circostanza e al contempo ricorda che nella morte non si può che interpretare se stessi; a fianco l’amico Walter Matthau con cui ha formato la strepitosa coppia protagonista di tanti film.
Jack Lemmon e Walter Matthau, “La strana coppia”
L’indovinatissima idea di farli recitare insieme la ebbe Billy Wilder che li diresse, nel 1966, in “Non per soldi ma per denaro”: Lemmon e Matthau si intendevano alla perfezione, condividevano l’innata eleganza che consentiva loro di non scadere mai nella volgarità anche quando la battuta sottintendeva doppi sensi altrimenti beceri; entrambi dotati di un’espressività eccezionale, con un movimento minimo, appena accennato, del volto o del corpo scambiavano e capovolgevano rapidissimamente il registro di recitazione.
Per la regia di Billy Wilder interpretarono anche i due grandi successi “Prima pagina” (1974) e “Buddy Buddy” (1981).
La consacrazione del duo fu “La strana coppia” del 1968, diretto da Gene Sacks e tratto dall’omonima commedia di Neil Simon, seguito trent’anni dopo da “La strana coppia 2” (1998, Howard Deuch) che mise fine alla collaborazione artistica fra Lemmon e Matthau ma non alla loro amicizia durata quanto le loro vite.
Negli anni ’90 avevano girato insieme “Due irresistibili brontoloni” (1993, di Donald Petrie) e il sequel “That’s amore – Due improbabili seduttori” (1995, Howard Deuch), impreziosito dalla presenza di Sofia Loren.
L’unico film in cui Jack Lemmon si cimentò nella regia ebbe come protagonista Walter Matthau (“Vedovo aitante, bisognoso di affetto offresi anche babysitter”, 1971).
Jack Lemmon, un commediante alla corte del re Billy Wilder
Billy Wilder aveva una predilezione speciale per Jack Lemmon che aveva scelto per interpretare Jerry/Daphne nel memorabile “A qualcuno piace caldo” del 1959, che vedeva come coprotagonisti Tony Curtis e Marilyn Monroe; l’anno successivo lo diresse in “L’appartamento”, nel 1963 in “Irma la dolce” con Shirley Maclaine e in “Che cosa è successo fra mio padre e tua madre?” del 1972, girato e ambientato in Italia.
Anche Richard Quine lo volle protagonista in molti suoi film fra cui “Una strega in paradiso” (1958) con Kim Novak e “Come uccidere vostra moglie” del 1965 con una splendida Virna Lisi che esce in bikini dalla torta di compleanno.
Wilder e Quine colsero ed evidenziarono la fantastica vis comica di Jack Lemmon, mentre Blake Edwards, che pure lo diresse più volte, fu colpito anzitutto dalla sua drammaticità, che peraltro sempre velava anche le interpretazioni esilaranti, e infatti lo diresse nel meraviglioso “I giorni del vino e delle rose” del 1962 in cui interpretò con passione e trasporto l’alcolista Joe Clay, forse anche per il problema che con lui condivideva e che rivelò molti anni più tardi.
Jack Lemmon, risate e lacrime
Le nomination per l’Oscar hanno seguito quasi ogni film che ha girato. Gli unici due Oscar vinti gli sono stati assegnati per ruoli drammatici, a ulteriore testimonianza della sua versatilità. Con il suo primo film importante, “Mr. Roberts” (1955, di John Ford e Mervyn Leroy), lo vinse quale Miglior Attore non Protagonista impersonando il Guardiamarina Frank Pulver. Seppe renderlo accattivante e intrigante, nonostante la pigrizia e l’egoismo che caratterizzavano il personaggio. La sua interpretazione non fu affatto oscurata dal confronto con i due colossi Henry Fonda a James Cagney.
L’altro Oscar, ancora per un ruolo drammatico, lo ottenne diciotto anni dopo, nel 1973, questa volta come Migliore Attore Protagonista. In “Salvate la tigre” (di John G. Avildsen) vestì i panni di Harry Stoner, imprenditore in cui le difficoltà finanziarie innescano una profonda crisi esistenziale, morale, generazionale e nei rapporti con gli altri.
Fu ancora per due personaggi drammatici che vinse il premio quale Miglior Interprete Maschile al Festival di Cannes. Prima con “Sindrome cinese” (1979, di James Bridges) con Michael Douglas e Jane Fonda, in cui si affronta il tema del pericolo nucleare. Poi con “Missing” (1982, di Costa-Gavras), dove interpretò il disperato e tenace padre di un giornalista scomparso in Cile durante il colpo di stato di Allende.
Meritano menzione, nella sua intensa carriera, anche: “Maccheroni”, del 1985, diretto da Ettore Scola e con Marcello Mastroianni, in cui interpretò un ricco manager Robert Traven, che riscopre i valori umani, per troppo tempo accantonati, nella commovente amicizia con Antonio Jasiello (Marcello Mastroianni); “America oggi” (1993, Robert Altman) che dipinge un’immagine impietosa della società americana.
L’ultima apparizione cinematografica è il cameo in “La leggenda di Bagger Vance” (2000, Robert Redford).
Oltre che attore anche di teatro e televisione, è stato un ottimo pianista. Infatti nell’attesa del successo, una volta finiti i 300 dollari regalatigli dal padre per tentare la sorte nella Grande Mela, si guadagnava da vivere suonando nei piano bar.
Fine, educato, gentile, sempre composto, troppo modesto: così ricordavano l’uomo Jack Lemmon i familiari, gli amici e i colleghi all’indomani della sua morte (Los Angeles, 27 giugno 2001).
Si chiamava in realtà John Uhler Lemmon III, era nato ricco a Newton – Boston, Massachussets l’8 febbraio del 1925, figlio unico di industriali della ciambella, aveva frequentato le scuole migliori: era chiaro che non avrebbe potuto essere uno qualunque e difatti non lo fu, anche se in modo profondamente diverso da come ci si sarebbe potuto attendere.
Claudio Di Paola