Recensione
L’uomo leopardo: dal New Mexico al Bates Motel, una gemma da riscoprire
Il genio del duo artistico Val Lewton (produttore) / Jacques Tourneur (regista) resta schiacciato, nella storia del cinema, dal peso degli enormi nomi con cui ha dovuto, volente o nolente, interagire. La RKO commissionò ai due “Il bacio della pantera” (1942) per riprendersi dal fiasco commerciale di “Quarto potere” (O. Welles, 1941), e li separò forzatamente nella miope prospettiva di una “massimizzazione degli incassi” appena nel 1943. Le loro opere finirono per influenzare profondamente i grandi classici dell’horror dei primi anni Sessanta, a cominciare proprio da “Psyco” (1960). Così, la straordinaria eleganza e la toccante intimità dei loro film viene spesso dimenticata. Varrà forse quindi la pena ricordare che, per arrivare all’Arizona di Norman Bates, occorre passare per il New Mexico de “L’uomo leopardo” (1943).
L’arte del fuori campo
Le tre (strabilianti) opere del duo Lewton/Tourneur, ossia “Il bacio della pantera”, “Ho camminato con uno zombi” (1943) e “L’uomo leopardo”, si caratterizzano per un uso costante del fuori campo. L’eleganza del chiaroscuro funge da mantello per l’azione, che viene esclusa puntualmente dalla scena. In particolare, ne “L’uomo leopardo”, gli sguardi dei protagonisti puntano verso un universo marginalizzato e insondabile, da cui talora affiorano come intermittenze della coscienza le tracce, simboliche, degli avvenimenti: una sigaretta, una banconota, segni di un mondo primordiale che scivola sul marciapiede mentre camminiamo, ricordandoci quanto poco siamo adatti a capire il mondo che ci circonda.
D’altronde, non è un caso che la citazione più nota del film sia quella del Dr. Galbraith, che paragona l’uomo a una pallina sospesa su uno spruzzo d’acqua, incapace di comprendere cosa la muova e cosa muova l’universo. “Fuori campo”, peraltro, è la vera ragione degli omicidi che insanguinano il villaggio, tanto che lo svelamento finale dell’assassino e del movente solleva più questioni di quante non ne risolva; “fuori campo” è il mostro, e molto sottilmente, al punto che il leopardo che vediamo minacciare la prima giovane vittima sembra essere distinto dall’entità polimorfa, fatta di suoni nell’ombra, che la insegue nel tunnel della ferrovia.
Lo spazio infinito e infinitesimo del terrore
Così, il fuori campo formale si sposa a una rimozione costante del nucleo della vicenda: la periferia della nostra visione, della nostra mente, sembra essere il contesto attivo del terrore dove viviamo. Spropositatamente grande, come il deserto di notte, e al contempo claustrofobico, come un cimitero o un’angusta strada cittadina, ne “L’uomo leopardo” lo spazio è una dimensione svuotata della distanza: il villaggio è un lungo corridoio, le scene sono incorniciate nei limiti stringenti della ripresa, e suggeriscono sempre più il peso di un “esterno”. In questo modo, il New Mexico povero e affamato diventa luogo preferenziale per una discesa infernale nel ventre dell’America, un posto “non per bionde” annichilito con la violenza da invasori bianchi che hanno sterminato chi ci abitava prima di loro, e dove latini e anglosassoni lottano ancora per la supremazia sotto la cappa, opprimente, delle parallele vicende di Oltreoceano.
All’apice della Seconda Guerra Mondiale, due europei (Lewton russo, Tourneur francese) relegano i “motivi”, la storia profonda, al di fuori dell’arco del conoscibile: al di fuori dello spazio enorme del mondo, nella periferia del microcosmo immateriale della nostra cognizione.
L’uomo leopardo: una narrazione multicentrica
Non sapremmo dire chi sia il protagonista del film. Il sottile gioco di ocularizzazioni e auricolarizzazioni, in soggettiva e in oggettiva, fa da contraltare a un generale sovvertimento dei principi narrativi classici. Ne “L’uomo leopardo” noi inseguiamo un personaggio, poi ne afferriamo un altro, e per ciascuno di loro abbiamo il tempo di provare un intimo legame di simpatia, conoscenza, prossimità. Per ciascuno di loro abbiamo il tempo di dolerci, al momento dell’inevitabile omicidio.
La trama elimina il centro, in linea col sentimento dell’opera, e noi spettatori dobbiamo prestare attenzione a tutti i dettagli, mantenere una coscienza aperta alle mille identificazioni che ci vengono offerte. Il suono ha, in questo senso, un’importanza paragonabile a quella dell’immagine, ed è forse un torto che si parli (seppure troppo poco) del duo Lewton/Tourneur anziché di un trio che includa anche il maestro degli effetti sonori James Stewart (non il fotografo amante di Grace Kelly, si badi). Questi, che aveva già lavorato con Orson Welles a “Quarto potere” e “L’orgoglio degli Amberson” (1942), sarà l’artefice dei famosi “Lewton bus”, essenza (replicabile) della nuova sensibilità di guerra “à la Casablanca” dell’horror degli anni Quaranta (dopo quella, plateale, “à la Via col Vento” degli anni Trenta).
Il suono, nelle sue mani, diventa uno strumento espressionistico, l’eco della periferia del mondo. Le nacchere di una ballerina possono essere al contempo immagini di vitalità e morte, allucinazioni e tormenti per la mente di un assassino; un treno che passa allontana da casa, e il fruscio metafisico degli alberi cela il rumore ben peggiore del vento di distruzione che sta spazzando il mondo.
Fino in Arizona?
Non è necessario ricordare l’importanza straordinaria di Alfred Hitchcock per la storia del cinema, né quella di “Psyco” per la storia dell’horror, del thriller, dello slasher. Spesso si parla di quel film, e a ragione, come di un punto di svolta, il momento seminale di un nuovo modo di rappresentazione, nel quale la “protagonista” può venire uccisa dopo soli 40 minuti e l’inconscio maligno di ciascuno di noi può elevarsi a immagine del male universale. Tuttavia, il primo sistematico impiego di questi elementi, il primo distillato nell’horror della lezione di Fritz Lang (“M – il Mostro di Düsseldorf”, 1931), si deve proprio alla magnifica interazione fra i due (troppo poco noti) geni europei che abbiamo voluto omaggiare in questo articolo. Il nostro invito è, dunque, di tornare presto in Arizona, se solo per potersi fermare in New Mexico.
Lorenzo Maselli
Trama
- Titolo originale: The Leopard Man
- Regia: Jacques Tourneur
- Cast: Dennis O’Keefe, Margo, James Bell, Jean Brooks, Isabel Jewell, Margaret Landry, Abner Biberman
- Genere: Horror, b/n
- Durata: 66 minuti
- Produzione: USA, 1943
“L’uomo leopardo” è un horror diretto da Jacques Tourneur nel 1943, adattamento del romanzo “Black Alibi” di Cornell Woolrich.
L’Uomo Leopardo: la trama
In un villaggio del New Mexico, Jerry (Dennis O’Keefe) prende in prestito un leopardo per risollevare le sorti dello spettacolo della sua ragazza Kiki (Jean Brooks), eclissata in un night-club dalla ballerina Clo-Clo (Margo). Questa, sentendosi provocata alla vista dell’animale, lo spaventa con le sue nacchere e lo porta alla fuga.
La fiera provoca il terrore in città, e, a partire dalla morte di una giovane ragazza, il villaggio è insanguinato da una serie di violenti omicidi. Solo Jerry, Kiki e il padrone del leopardo, Charlie (Abner Biberman), sembrano convinti che dietro le morti ci sia invero un pericoloso assassino, e si affidano alle conoscenze del Dr. Galbraith (James Bell) per svelare il mistero. Potranno davvero fidarsi di chi hanno intorno?