Già vincitore del Golden Globe per il Miglior film drammatico, “Moonlight” – scritto e diretto da Barry Jenkins – è candidato a otto premi Oscar: Miglior film, regia, sceneggiatura non originale, fotografia, montaggio, colonna sonora, con l’aggiunta delle due nomination per attore e attrice non protagonisti riconosciute a Mahershala Ali e Naomie Harris.
Moonlight: uno spiraglio di buon cinema ‘black’ nella mediocrità degli altri titoli in gara
Dopo aver ottenuto un consenso critico pressoché unanime, e sulla rampa di lancio in seguito al successo nella serata dei Golden Globe Awards, “Moonlight” appare effettivamente come uno dei candidati forti, anche tenendo in considerazione la qualità media della selezione, tanto bassa da risultare sconcertante: non è stata in effetti una stagione cinematografica memorabile, ma l’inclusione di opere come “Arrival” e “Lion” – l’uno un fallimento artistico che parte da presupposti linguistico-narrativi interessanti per sfociare in sentimentalismo mistico da due soldi, l’altro un impacchettamento commerciale molto sciropposo di una straordinaria storia realmente accaduta – lascia comunque una certa dose di perplessità.
Basta una rapida occhiata agli altri titoli in competizione per far emergere un dato interessante: sono ben tre i rappresentanti di un cinema a soggetto ‘afro-americano’. Oltre “Moonlight”, infatti, troviamo “Barriere”, per la regia di Denzel Washington, e “Il diritto di contare”, storia della matematica Katherine Johnson e del suo apporto alle prime missioni spaziali della Nasa (nel cast di quest’ultimo, tra l’altro, figura anche Janelle Monáe, cantautrice lanciata proprio da Jenkins sul grande schermo).
Non è un mistero che determinate candidature agli Oscar abbiano dei connotati socio-politici piuttosto palesi: dopo la campagna social #OscarSoWhite e le polemiche per l’assenza di attori e attrici neri nella corsa alle statuette degli ultimi due anni, ecco spuntare fuori la bellezza di sei candidature per attori afro-americani: per quanto riguarda “Moonlight” nello specifico, si può affermare serenamente che le nomination di Mahershala Ali e Naomie Harris rispecchiano un criterio di merito – le prestazioni di entrambi sono eccellenti e riescono a conferire spessore ai rispettivi personaggi, assai incisivi anche nei limiti di un minutaggio relativamente ridotto.
Moonlight: molto più di un (probabile) successo, tra ‘politica’, pellicola d’autore e ‘poetica indipendenza’
A una valutazione superficiale la candidatura di “Moonlight”, in effetti, sembrerebbe doppiamente ‘politica’: sullo sfondo di un quartiere povero di Miami totalmente nero, si sviluppa l’educazione identitaria e sentimentale di un giovane ragazzo che si trova a fare i conti con una socialità problematica e con la propria omosessualità.
Ma il film di Jenkins, in realtà, non contiene in sé alcun germe di contestazione ideologica: si tratta effettivamente di una proposta pienamente autoriale che fa perno sull’introspezione psicologica e su una crisi individuale, e se proprio si vuole ravvisare una certa dose di coraggio nel riconoscimento da parte dell’”establishment” cinematografico, tale coraggio va cercato nell’intenzione di premiare un film che in effetti si muove su parametri indipendenti, senza nulla da spartire con il paradigma produttivo industriale del cinema americano.
La narrazione in “Moonlight” è scandita in tre atti, come blocchi massicci e coesi, e segue vent’anni di vita di un giovane nero, Chiron, rappresentato da tre attori diversi tra i dieci, i venti e i trent’anni (circa).
Una madre tossicodipendente, uno spacciatore di droga che lo salva da alcuni bulli e poi diviene il suo mentore, la prima esperienza sessuale con un altro ragazzo e l’esperienza del riformatorio in seguito a uno scatto d’ira: “Moonlight” è un film che vive di atmosfere, amplia il respiro del racconto per dar spazio ai dialoghi – comprensivi delle difficoltà comunicative del protagonista – e alla complessità delle situazioni; una poetica minimalista che raramente raggiunge picchi di intensità rappresentativa (ma a volte sì, specie nel finale), finendo però per diluire, alla lunga, il carico di tensione conflittuale e risultando a tratti ridondante, soprattutto nella mancata evoluzione psicologica di Chiron, che sembra in fondo rimanere al punto di partenza rispetto alla percezione del sé.
Jenkins è un regista con grande personalità, su questo non ci piove: all’audacia della scelta formale sul piano narrativo per il suo “Moonlight” – il minimalismo, l’introspezione estesa, la scissione in tre atti distinti e comunicanti – non fa però fronte un analogo sperimentalismo sul piano tecnico, con una regia tendenzialmente classica in cui domina il gioco del campo e controcampo, e un ricorso frequente, a volte abusivo, ai primissimi piani.
Marco Donati
03/02/2017