Preparate i fazzoletti perché l’opera seconda di Bernstein è un racconto intenso e coinvolgente su come può essere difficile l’infanzia e sugli incontri che cambiano la vita
(Meu Pé de Laranja Lima) Regia: Marcos Bernstein – Cast: João Guilherme Ávila, Kathia Calil, Caco Ciocler, Eduardo Dascar, José de Abreu, Julia de Victa, Tino Gomes, Emiliano Queiroz, Fernanda Vianna – Genere: Drammatico, colore, 99 minuti – Produzione: Brasile, 2012.
“My Sweet Orange Tree“ è il secondo lungometraggio di Marcos Bernstein, dopo il pluripremiato “The Other Side of the Street”.
In un primo momento Bernstein, noto per la sua bravura come sceneggiatore (tra le tante scritte ricordiamo quella di “Central do Brasil”) è stato contattato per adattare per il grande schermo, assieme a Melanie Dimantas, l’omonimo romanzo autobiografico di José Mauro de Vasconcelos, pubblicato nel 1968.
È stato talmente grande il fascino che il libro ha esercitato su Bernstein, che lo sceneggiatore si è proposto con determinazione anche per dirigerlo, riuscendo nell’intento.
La pellicola racconta di Zezé, un bambino di 7 anni, appartenente ad una famiglia povera e poco istruita, con una mamma che lavora lontana e rientra solo per il fine settimana, due sorelle, due fratelli e un padre disoccupato, che sfoga la sua rabbia proprio con lui, giustificando le violenze come un’inevitabile conseguenza dell’eccessiva vivacità del bambino.
Zezé non si sente amato e neppure capito, fino all’incontro con l’anziano Portuga, un incontro che gli cambierà la vita per sempre, aiutandolo a sopravvivere alle avversità quotidiane. Portuga, il cui vero nome è Manule Valadares, si affeziona subito al bambino, che finalmente riceve tenerezza e amore.
Il vivace bambino fugge dalla dura realtà parlando con una pianta d’arancio che considera magica, per dare sfogo alla sua fantasia scoppiettante, e anche per questo viene picchiato, perché questi atteggiamenti, secondo il padre, lo fanno sembrare quasi matto. Portuga invece comprende l’intelligenza e le notevoli capacità del piccolo, e lo incita a inventare sempre nuove storie da raccontargli, e magari anche di scriverle.
Bernstein narra, in modo quasi epico, di come può essere difficile apprezzare la vita se ogni cosa va storta, se ti manca quasi tutto, anche l’amore della tua famiglia, dalla quale non ti senti capito.
La telecamera segue il bambino nei momenti tristi e in quelli gioiosi, dalle botte, alle corse col fratellino più piccolo, col quale Zezé si sente in sintonia, ai momenti condivisi con l’anziano amico, i cui consigli daranno una svolta alla vita del bambino.
Il grande affetto che unisce i due è esaltante e al contempo commovente, per il bambino l’uomo è il padre che vorrebbe scegliere d’avere.
Non c’è giustificazione che tenga per i maltrattamenti che Zezè subisce dal padre, e anche dalla sorella maggiore, e neppure per il comportamento della madre che, quando presente, non è d’aiuto al figlio.
Eppure, nonostante i tanti drammi che la storia mostra, alcuni molto toccanti, c’è sempre una luce che brilla nella notte, grazie a Portuga, una figura che lo spettatore terrà sempre nel cuore.
Maria Grazia Bosu