Parkland: la morte di John Fitzgerald Kennedy mostrata da insolite prospettive, che narrano la concitazione degli accadimenti attraverso persone comuni
Regia: Peter Landesman – Cast: Zac Efron, Paul Giamatti, Billy Bob Thornton, Jacki Weaver, Jeremy Strong, Marcia Gay Harden, Brett Stimely, Gary Grubbs, Bryan Batt, Robert Catrini, Drew Waters, Matthew Tompkins, Richard Jackson, Peggy Schott, Devin Bonnee, James Badge Dale, Jackie Earle Haley, Colin Hanks, David Harbour, Ron Livingston, Tom Welling, Matt Barr – Genere: Drammatico, colore, 92 minuti – Paese: USA, 2013 – Data di uscita: 22 novembre 2013 (Rai3).
Nell’insieme delle iniziative documentaristico-cinematografiche volte a ricordare i cinquant’anni trascorsi dall’uccisione di John Fitzgerald Kennedy, “Parkland” merita una menzione speciale. Questo film mette sullo sfondo, come rispettosamente sfumati, la figura del presidente e della moglie Jacqueline, mentre narra le vite degli altri, di quella gente comune che si è trovata per caso in mezzo ad avvenimenti più grandi di loro e che hanno saputo affrontare con paura, coraggio, senso del dovere.
È un film corale, ma spezzettato, poiché molte sono le sfaccettature di un avvenimento, molteplici i punti di vista, quasi quanto gli osservatori. La sceneggiatura, tratta dal libro “Four Days In November” di Vincent Bugliosi, è opera di Peter Landesman, che con questo film esordisce anche alla regia.
La telecamera segue le vicende di un giovane medico specializzando, interpretato da un intenso Zac Efron, che, di turno in sala operatoria al Parkland Memorial hospital, si vedrà prima portare sul lettino un ormai agonizzante Presidente degli Stati Uniti, assistito da una matura infermiera che fa di tutto per calmare gli animi sovraeccitati della folla presente nella stanza, e due giorni dopo nell‘indifferenza generale l‘attentatore Lee H. Oswald, colpito a morte mentre era trasportato fuori dal commissariato di Dallas in quello che diventerà il primo omicidio in diretta della storia. Nel contempo seguiamo le vicende di un mite signore ebreo, Abraham Zapruder, interpretato dal solito bravissimo Paul Giamatti, che uscito dall’ufficio con la sua segretaria per filmare il corteo presidenziale con la sua nuova cinepresa Super 8, si ritrova tra le mani l’unica testimonianza di quello che diventerà l’omicidio più famoso della storia.
E che dire se sei il fratello dell’omicida più famoso della storia? È quello che dal 22 novembre 1963 deve essersi ripetuto milioni di volte Robert Oswald, interpretato da James Badge Dale, fratello di Lee Harvey, un mimetico Jeremy Strong, che dopo aver sentito per radio la notizia prima dell’attentato, poi dell’arresto del fratello, si trova incredulo, costretto a fare i conti con una madre squilibrata, una bravissima Jacki Weaver, alla quale non sembrava vera l’improvvisa notorietà.
A raccordare tutti i filoni della vicenda sono le forze dell’ordine, che, affrontato e superato in fretta lo smacco di “aver perso il loro uomo”, cercano di far luce su quanto accaduto e di mettere le mani nel più breve tempo possibile sul numero maggiore di prove. A guidare l’FBI di Dallas è Forrest Sorrels, un bravissimo Billy Bob Thornton, mentre l’agente di scorta del presidente Roy Kellerman, che sedeva quel giorno per la prima volta sul sedile anteriore della limousine presidenziale, è interpretato dal bravo Tom Welling.
Un tocco di mistero arriva dalle vicende dell’agente FBI di Dallas James Hosty, interpretato da Ron Livingston, che per essersi recato a casa e aver interrogato la moglie di Lee Oswald, riceve dallo stesso una lettera di minacce pochi giorni prima del fatidico 22 novembre (‘se lo avesse arrestato per quelle minacce a un agente dell’FBI’, lo rimprovera il capo, ‘Oswald non sarebbe andato in giro ad uccidere il Presidente…’).
La storia avanza, ma non la subiscono solo i grandi, anche le persone semplici, che hanno vissuto quelle ore frenetiche, non saranno più le stesse. La vicenda si chiude col funerale solitario di Lee H. Oswald, in contemporanea con quelli solenni di JFK, in un cimitero desolato. Si allude forse alla fine del Sogno Americano? Probabilmente quel giorno di novembre di cinquanta anni fa l’America perse la sua innocenza, e le risaie del Vietnam erano appena dietro l’angolo, pronte ad ingoiare una generazione di giovani a stelle e strisce.
Daniele Battistoni