Un thriller labirintico che affronta con crudeltà i demoni dell’animo umano, in particolare quelli di un genitore a confronto con la perdita della figlia
Regia: Denis Villeneuve – Cast: Hugh Jackman, Melissa Leo, Jake Gyllenhaal, Paul Dano, Maria Bello – Genere: Drammatico, colore, 155 minuti – Produzione: USA, 2013 – Data di uscita: 7 novembre 2013.
Molte produzioni americane sono incentrate sulla storia di rapimenti di bambini e di famiglie smembrate per colpa del maniaco della porta accanto, ma “Prisoners” di Denis Villeneuve, che di certo può collocarsi nel filone, è in grado di spingere questi temi verso un livello più alto, più approfondito, nonché di dare a una vicenda, banale in sé, chiavi di lettura differenti.
Keller Dover (Hugh Jackman) sta festeggiando il giorno del Ricevimento con la propria famiglia e i Birch. Improvvisamente, nel bel mezzo della festa, Anna, la figlia piccola di Keller, sparisce insieme all’amichetta Joy Birch. Le due famiglie si attivano per trovarle, ma alla fine dovranno contattare la polizia. Sarà il detective Loki (Jake Gyllenhaal) a occuparsi del caso, ma dovrà scontrarsi con il desiderio di ‘giustizia privata’ del padre di Anna, che si accanirà con un sospettato, un ragazzo dai seri problemi mentali (Paul Dano).
La serena quotidianità familiare delle prime scene viene turbata subito da atmosfere cupe e inquadrature ad effetto di un camper che si aggira per il quartiere in cerca di qualcosa. Il timore di venire attaccati in casa propria, nella propria zona di residenza, magari da un vicino, è un tema ricorrente, che in questo thriller viene declinato con maestria. L’aspetto ben riuscito del film, oltre che nella scelta degli attori, risiede nell’architettura scenica e in un montaggio serrato, ma anche nella selezione delle ambientazioni; “Prisoners” è girato nei sobborghi di Atlanta, in Georgia, luoghi all’insegna del grigio, del cupo, della pioggia e del gelo che aggiungono all’azione un senso di oppressione e di inquietudine. La casa dei Dover è circondata da boschi, fiumi e autostrade, per cui le possibilità di trovare Anna e Joy si diradano in relazione alle dinamiche spaziali intorno a loro.
Il regista insiste poi molto su particolari quotidiani o su elementi del paesaggio, che veicolino l’idea (molto americana) di una realtà di facciata intaccata da storie sordide e sporche; se le case appaiono tutte uguali dal di fuori, spesso all’interno regna la desolazione, la rovina o la follia. Anche la colonna sonora, a tratti dissonante, arricchisce di pathos le scene.
Il film si costruisce su diversi piani, con continui cambi di prospettiva, suscitando perplessità e sospetti nello spettatore che è portato a interrogarsi non solo sulla chiave di risoluzione della vicenda, a suo modo complessa e intricata, ma anche sulla correttezza morale dell’agire dei personaggi. Keller Dover e il detective Loki, interpretati dai bravissimi Hugh Jackman e Jake Gyllenhaal, costituiscono i due assi portanti della vicenda, due binari paralleli che convergono nel finale nonostante la diversità profonda di carattere: l’uno rappresenta l’istinto, la rabbia cieca che si trasforma in violenza inaudita e contraddice il dolore scaturito dal rapimento di una figlia; il detective rappresenta la legge, la razionalità, ma anche l’umanità. Il primo da padre disperato diventa aguzzino, il secondo, personaggio anche lui tormentato, rimane però fedele a sé stesso.
La possibilità di doppia lettura si estende un po’ a tutti gli altri personaggi, rendendo la trama ‘labirintica’, proprio come voluto dal regista: Alex, il ragazzo accusato del rapimento, da possibile sospettato passa ad essere vittima, ma rimane sempre il dubbio che sia comunque a conoscenza dei fatti; i Birch approcciano alla scomparsa della figlia in maniera più normale, ma anche loro si lasciano a loro modo plagiare dalla follia di Keller Dover. Rimane il sospetto che la pellicola voglia un po’ attenuare le colpe del protagonista, facendone il prototipo di padre forte in grado difendere la famiglia a tutti costi. La figura della moglie, assuefatta al dolore e passiva al limite del fastidioso, non fa che acuire la sensazione che si cerchi di giustificare l’operato di Dover, spinto dai propri doveri familiari e coniugali a divenire aguzzino.
Nonostante il finale appaia meno efficace dell’impianto generale del film, a causa di una deriva inevitabile nel buonismo, il punto di forza rimane la struttura contorta della pellicola, a suo modo simbolica rispetto ad alcuni elementi o indizi della vicenda. Appare molto calzante poi la scelta del titolo: “Prisoners” ossia i prigionieri, non il prigioniero, perché nel film ce ne sono vari, tutti tenuti segregati con dinamiche diverse. Ma qualunque sia il motivo alla base della prigionia, non si deve mai negare che essa sia disumana e alienante per qualunque essere umano, peccatore o presunto tale.
Irene Armaro