“Pantafa“, film di paura diretto da Emanuele Scaringi e fondato su una leggenda popolare degli Abruzzi, rappresenta un tentativo certamente apprezzabile di rinvigorire un genere verso il quale la nostra cinematografia contemporanea mostra sempre abbastanza esiguo interesse, se non anche proprio scarsa inclinazione. Peccato, però, che lo sforzo si riveli leggermente infruttuoso. Di produzione FANDANGO con RAI CINEMA, il film è nelle sale dal 30 di marzo.
Indice
Pantafa – tutte le informazioni
Trama
Marta (Kasia Smutniak) si trasferisce insieme a sua figlia Nina (Greta Santi) a Malanotte, un piccolo paese di montagna. La bambina da qualche tempo soffre di paralisi ipnagogiche, un disturbo del sonno che può portare ad avere stati allucinatori, e Marta ha pensato che un po’ di aria di montagna e di lontananza dalla frenesia cittadina possano giovare alla piccola. La casa in cui si trasferiscono però è tutt’altro che accogliente e per le strade di Malanotte non si vedono mai bambini. I sintomi di Nina cominciano a peggiorare già dalla prima notte, la bambina fa incubi sempre più vividi in cui una figura spettrale le si siede sul petto, la immobilizza e le ruba il respiro. Per Marta, madre sola in un paese che le appare sempre più sinistro, sarà ogni giorno più difficile trovare il modo di fare la cosa migliore per la sua bambina.
Crediti
- Regia: Emanuele Scaringi
- Cast: Kasia Smutniak, Greta Santi, Mario Sgueglia, Betti Pedrazzi. «continua Mauro Marino, Giuseppe Cederna, Francesco Colella, Ugo De Cesare
- Genere: orrore
- Durata: 105 minuti
- Produzione: Italia, 2022
- Casa di produzione: Fandango con RAI CINEMA
- Distribuzione: Fandango
- Data di uscita: giovedi 30 marzo 2023
Recensione
“Pantafa“, di Emanuele Scaringi, è un horror sovrannaturale fosco e sinistro, il cui soggetto va ad attingere simpaticamente al folklore abruzzese. La “pantafa” è difatti una figura mitologica profondamente radicata nel contesto regionale, una specie di strega che ha la prerogativa di disturbare il sonno a chi sia talmente sfortunato da cadervi tra le lunghe dita artigliate, nella fattispecie la piccola Nina (una Greta Santi fruttuosa).
L’atmosfera generata dal film è senza dubbio orrorificamente persuasiva, con una gradevole patina di tetraggine ad ammantare l’irrequietezza misterica di Smutniak e Santi. E la dimora di campagna ove le due si rifugiano rientra precisamente nel topos della “casa stregata” tipico del genere. Quindi il difetto principale del film pare non risiedere esplicitamente in una eccessiva familiarità di taluni stereotipi estetico-poetici della cinematografia di paura, ben supportati (va detto) da una realizzazione, sotto il mero profilo tecnico-stilistico, sicuramente efficace; né tantomeno in performance attoriali che risultano essere a tutti gli effetti onorevoli. Ma semmai, più di preciso, in una costruzione della storia dal ritmo fuor di misura compassato (segnatamente nella prima parte) e in una penuria discretamente mortificante di suspense che si traduce in una tensione non palpabile. Tutto ciò non può dunque che inficiarne fatidicamente una riuscita ottimale.
É come minimo lodevole il tentativo di dar vita ad un filone di orrorismo nostrano post-moderno che possa non diciamo sfidare, ma quanto meno appaiarsi dignitosamente all’horror propugnato dai maestri internazionali. Tuttavia, per quanto sia una scelta espressiva del tutto degna di rispetto, non si può pensare che l’assenza semi-totale di spaventi tangibili e spettacolarmente rilevanti, così come la latitanza di un terrore che conservi la forza primigenia di mostrarsi come realmente immanente, possa passare sottotraccia senza necessariamente condizionare in senso non così positivo il risultato finale.
Giudizio e conclusioni
“Pantafa” è una pellicola godibilmente lugubre, ben realizzata e decorosamente recitata, che non desta tuttavia quella tremarella genuina necessaria a poter definire inderogabilmente un horror come pienamente riuscito.
Note di regia
Vi è mai capitato di svegliarvi all’improvviso e di trovarvi con gli occhi sbarrati nel cuore della notte, con addosso una strana sensazione di panico, l’incapacità di muovere un solo muscolo e la percezione di qualcosa o qualcuno sul petto che vi opprime? Non preoccupatevi, non siete soli. Qualche anno fa un gruppo di ricercatori dell’università di Padova in associazione con l’Università della California e di Harvard ha condotto uno studio sul fenomeno della paralisi del sonno, scoprendo che questa patologia colpisce circa il 10% delle persone nel corso della vita. La paralisi ipnagogica è l’incapacità di muoversi quando ci si risveglia durante la fase REM nella quale avvengono i sogni e il corpo è paralizzato per impedire il loro attuamento nella realtà. L’attività onirica della fase REM, ancora attiva, può creare allucinazioni, anche terrificanti.
Un terzo delle persone coinvolte nello studio ha dato una sorprendente interpretazione culturale a questo fenomeno. Riteneva che questa potesse essere causata da un’entità soprannaturale conosciuta con il nome di Pantafa. La Pantafa è una leggenda popolare. Una creatura che si siede sul petto e ti ruba il respiro. Il folclore italiano è popolato da numerose leggende che fanno parte della nostra cultura e che rappresentano uno dei modi principali con cui esorcizzare il male e le paure. Attingere a questo impressionante pozzo di storie significa entrare in un mondo fatto di riti, superstizioni e meraviglie. Un mondo affascinante e pauroso insieme. La Pantafa è la raffigurazione del mostro. La rappresentazione del male. L’incarnazione della nostra parte più buia.
Un male oscuro che ci consuma quotidianamente e rode ogni nostra piccola sicurezza. Una delle paure più inconfessabili e difficili da accettare è l’odio verso la progenie. Un rancore indicibile e soffocato. Quello spirito maligno che insinua il dubbio che senza quel figlio la propria vita sarebbe stata diversa. Un tabù. Forse il più terribile di tutti. La Pantafa è una parte di noi, parla delle nostre bassezze più recondite. Quello che spaventa non è l’orrore mostrato ma il non visto, l’orrore che viene evocato. Quello che non si potrebbe raccontare. Le storie dell’orrore servono anche a questo, a trasformare, tramandare e liberarsi delle nostre paure e debolezze.