Con “Scarface” Brian De Palma realizza un capolavoro di genere avvalendosi della potenza interpretativa di Al Pacino
Regia: Brian De Palma – Cast: Al Pacino, Steven Bauer, Michelle Pfeiffer, Mary Elizabeth Mastrantonio, F. Murray Abraham – Genere: Drammatico, colore, 170 minuti – Produzione: USA, 1983 – Distribuzione: UIP – Data di uscita: 9 dicembre 1983.
Gli anni ’80 sono il periodo d’oro del regista Brian De Palma, il più giovane di quel gruppo di cinefili italian-american che include anche Coppola e Scorsese. Fin dall’inizio della sua carriera, De Palma aveva deciso, seguendo l’esempio dei suoi modelli ideali, Hitchcock e Godard, dilavorare sul cinema di genere, innovandone la messa in scena, rispettando però le convenzioni e concedendo al pubblico tutta l’emozione di una narrazione ben ritmata.
Dopo il musical “Il fantasma del palcoscenico” e l’horror, affrontato con “Carrie” nel 1976, è il momento per il regista di confrontarsi con il cinema classico hollywoodiano. De Palma sceglie “Scarface”, violento noir diretto nel 1932 da Howard Hawks, uno dei maestri della Classic Hollywood, ed ispirato vagamente alla carriera delittuosa del mitico boss di Chicago, Al Capone.
Il regista decide di modernizzare la storia, spostandola ai suoi tempi e scegliendo di trasformare il mafioso italoamericano in un immigrato cubano che si fa largo a raffiche di mitra nel fiorente mercato della cocaina di Miami. Per sostenere il remake, De Palma chiama a fare il protagonista Al Pacino, già canonizzato da “Il padrino” di Coppola negli anni ’70 nel ruolo di Michael Corleone. L’operazione rilancia dunque non solo sugli schemi classici del noir, che vengono aggiornati e amplificati, ma persino sul cinema anni ’70 di Scorsese e Coppola che in un certo modo viene superato in violenza e stilizzazione.
Pacino, costruendo con la consueta meticolosità l’accento cubano e gli atteggiamenti antisociali di Tony Montana, aggiunge la potenza interpretativa della sua macchina attoriale alla solidità di questo curioso remake che del film originale conserva solo l’idea di descrivere l’ascesa e la caduta di un personaggio “bigger than life”, estremo nei suoi molti vizi e nelle sue poche virtù.
Tony Montana arriva poverissimo nella terra del sogno americano, ma si rivela presto per quello che è: un astuto criminale che non esita di fronte a nulla pur di conquistare il benessere economico al quale aspira. Aiutato dal suo amico Manny si mette al servizio del boss Frank Lopez, che in seguito eliminerà per trattare direttamente col potente trafficante Alejandro Sosa. Nella sua rapida e sanguinosa scalata al cielo Tony ottiene tutto: una villa magnifica, l’amore dell’ex donna di Lopez, una luminosa e giovanissima Michelle Pfeiffer, e il dominio assoluto delle vite dei suoi complici. Ma è proprio il suo delirio di onnipotenza a rovinarlo facendolo precipitare nella dipendenza dalla droga e in una spirale di violenta paranoia. Dopo aver sfidato Sosa disobbedendogli, arriva ad uccidere Manny, colpevole di aver concupito sua sorella, finendo per lasciarsi rabbiosamente massacrare in una sparatoria finale che resta un ultracitato pezzo da antologia del cinema gangsteristico americano.
Nonostante le immancabili critiche che ne condannavano la violenza fisica e verbale (pare che la parolaccia “fuck” sia ripetuta da Pacino ben 182 volte) o la presunta scarsa originalità, il prodotto finale è stato un successo di cassetta che trasformò ben presto il film in un classico alla pari di “Il Padrino”, confermando per il decennio successivo la fama di De Palma come regista estremo, ma al tempo stesso in grado di costruire storie sempre accattivanti per il grande pubblico.
Fabio Benincasa