Kathryn Bigelow in “The Hurt Locker” racconta di come l’adrenalina possa essere una delle droghe più devastanti per i soldati in guerra
Regia: Kathryn Bigelow – Cast: Jeremy Renner, Anthony Macki, Brian Geraghty, Guy Pearce, Ralph Fiennes – Drammatico, colore, 130 minuti – Produzione: USA, 2008 – Distribuzione: Warner Bros Italia – Data di uscita: 10 ottobre 2008.
Sminare che passione! potrebbe essere il giusto sottotitolo dell’ultimo film della 57enne regista “con due palle così” (Gillo Pontecorvo dixit dopo aver visto il suo bellissimo “Strange Days”), giunta alla sua settima fatica e a ben 6 anni dal suo ultimo film, il poco riuscito “K19”. La distribuzione italiana ha invece optato per il più commuovente ma fuorviante slogan Maledetto il Paese che ha bisogno di eroi, quasi per ammantare la pellicola con l’antimilitarismo, che accomuna gran parte delle pellicole che negli ultimi anni hanno invaso le sale raccontando la guerra in Iraq.
In realtà, come la stessa Bigelow ha tenuto a chiarire, “The Hurt Locker”, tratto dalla storia-reportage del giornalista Mark Boal, è un film sulla dipendenza che la paura (o adrenalina, nella sua accezione più positiva) provoca in molti soldati che continuano ad arruolarsi volontariamente per i conflitti che lo Zio Sam, di volta in volta, accende in giro per il mondo. Se la guerra è una droga, come sostiene la scritta a pieno schermo che apre la pellicola, allora il Sergente Maggiore William James (Jeremy Renner) è a tutti gli effetti un tossicodipendente (come a loro modo lo erano il poliziotto surfista Johnny Utah in “Point Break” e il traffichino Lenny Nero in “Strange Days”), visto che nella sua breve carriera militare ha disinnescato quasi 400 bombe pronte ad esplodere.
Ciò nonostante è continuamente spinto da un bisogno incontrollabile che lo porta ad abbandonare in patria la deliziosa fidanzata con bimbo accluso, per farsi spedire in zone calde, dove ogni giorno è a un passo dall’essere dilaniato da esplosivi di ogni calibro. Il giovane artificiere si trova così a condividere con un piccolo plotone i pericoli che il deserto e le disastrate città irachene riservano ai soldati stelle e strisce sfidando, con sfrontata incoscienza, imboscate, cecchini, autobombe e kamikaze pronti a farsi saltare in aria.
Il suo agire, pur con le inevitabili e saltuarie concessioni alla pìetas verso commilitoni uccisi, bambini e poveri disgraziati del posto, appare unicamente guidato da una ricerca compulsiva del rischio, come se ogni giorno possa essere l’ultimo. Per ottenere il massimo realismo possibile, la Bigelow è andata a girare in Giordania, tra mille difficoltà e con un budget non astronomico.
Il risultato è un film eccessivamente lungo e non esente da pecche ideologiche (gli iracheni, ad esempio, sono rappresentati, salvo rare eccezioni, come persone infide ed ostili, presenze quasi invisibili e senza alcun tipo di remora morale nel preparare attentati anche ai danni dei civili) ma comunque piacevole da seguire grazie alla rinomata abilità della regista nelle scene d’azione e a una fotografia satura in grado di farci quasi respirare la polvere da sparo, la ruggine, il sudore e il sangue che impregnano la sabbia di quella che fu la culla dell’umanità ed oggi solamente un susseguirsi di edifici devastati, carcasse di auto e deserti inospitali.
Vassili Casula