Una galleria di affreschi esistenziali tra ribaltamento comico e apertura metafisica
(En Duva Satt På En Gren Och Funderade På Tillvaron) Regia: Roy Andersson – Cast: Holger Andersson, Nisse Vestblom, Viktor Gyllenberg, Lotti Törnros, Jonas Gerholm – Genere: Commedia drammatica, colore, 101 minuti – Produzione: Svezia, 2014 – Distribuzione: Lucky Red – Data di uscita: 19 febbraio 2015.
Essenziale dal punto di vista registico e bizzarro sul piano contenutistico, “Un piccione seduto su un ramo riflette sull’esistenza” è – come facilmente desumibile già dal titolo – un’opera non inquadrabile in un prospetto sinottico: rifugge dalla mimesi nella narrazione, ponendosi piuttosto come comica messinscena di un teatro dell’assurdo.
Non è tanto il riflettere ad essere al centro della poetica esposta, quanto piuttosto il rimuginare: il constatare l’insignificanza di piccoli normali gesti quotidiani, e allo stesso tempo quella di clamorosi innesti fantastici che sembrano sconquassare l’ordine stabilito per poi ritirarsi con la testa bassa e la coda tra le gambe. L’insignificanza, sì, ma anche la necessità: perché è giusto chiedersi chi siamo, da dove veniamo e dove andremo, ma anche rendersi conto che, dopotutto, la vita va avanti e in qualche modo bisogna pur viverla.
La staticità e l’ampiezza delle inquadrature di Roy Andersson fungono da elegante cornice per una galleria di affreschi in movimento; le scene si susseguono l’un l’altra senza apparente legame o sovrapposizione, come se fossero legate dall’unico filo conduttore di un’esposizione museale. L’apertura contiene già in sé la cifra stilistica dell’opera, e si dà il caso che questa sia inserita nel contesto di un museo vero e proprio, presumibilmente di scienza naturale: un vecchietto stralunato posa lo sguardo inespressivo su un piccione impagliato.
In realtà un piglio narrativo c’è, nella liricizzazione poetica – o metafisica – di tre situazioni particolari, poste nella loro esemplarità come emblematiche di una riflessione più ampia, esistenziale: una malinconica e testarda coppia di venditori di articoli per far scherzi («Quello che ci proponiamo è di far divertire la gente»), che costituisce forse il nodo dominante; una donna grassottella che impazzisce d’amore per un suo allievo di danza, infastidendolo ai limiti della molestia; un re d’altri tempi, Carlo XII, che parte per una misteriosa campagna e torna con il suo esercito a pezzi, avendo perduto metà del regno – le sue gesta, però, sono condensate nelle poche battute pronunciate in un locale dove, accompagnato e tripudiato dai suoi attendenti, prende un bicchier d’acqua e tenta di usufruire del bagno.
Le battute e i dialoghi, mai gratuiti, formano un’ammaliante cantilena ad esaltazione del vuoto, un non-senso che assume in via strutturale una potenza macro-semantica proprio in virtù della propria abnorme amplificazione: «Sì, sono felice di sapere che vi vada tutto bene» è la frase ripetuta con frequenza dai più svariati personaggi, capaci di comparire in scena anche solo per pronunciare dal nulla questa verità convenzionale.
L’elemento di innaturalezza nella rappresentazione è piuttosto enfatizzato, e fornisce la spinta propulsiva ad una interpretazione allegorica delle alterne vicende: in senso lato, l’inafferrabilità del destino umano; ma anche la stessa umana indole che vuole e tenta in ogni modo di perseguire uno scopo e un ideale nel presente, costruendo passo dopo passo il percorso verso l’adempimento di questo destino.
Nell’enigmatica dialettica tra vita e morte, tra senso della vita e promessa della morte, il film di Roy Andersson riesce nell’impresa di non smarrirsi in una deriva filosofeggiante: a dare corpo al significato c’è il significante che lo esprime, e proprio nella forma – eccentrica, originale, esteticamente appagante – si manifesta la grandezza di una narrazione tesa a svelare in chiave comica la fragile bellezza, o all’inverso la stolida meschinità, del singolo istante, del frammento di vita, più in generale della natura umana crudele, sensibile e contraddittoria.
Marco Donati